opinioni

Un contributo per un 27 gennaio di neve

mercoledì 26 gennaio 2005
di Laura Ricci

In parte bloccata dalla neve – che si ostina più che altrove nella mia dimora poranese posta a nord - per giunta con la connessione lenta di paese, per giunta con lo scanner fuori uso - e dunque impossibilitata a passare una qualunque pagina all’OCR - ho fatto, per la rivista on line fabruaria un paziente, ostinato lavoro di scrittura e trascrizione. L’ho fatto per questa ricorrenza del “Giorno della Memoria” e, forse anche sulle note di quella mesta canzone dei Nomadi che, di Auschwitz, ricorda anche la neve, mi viene in mente che una parte del mio lavoro potrei usarla, produttivamente, anche per un editoriale. È pur vero che dai quotidiani di UNN a fabruaria c’è un link diretto, ma è vero altrettanto che l’argomento in questione sfuggirà a molti. Forse un editoriale è più visibile.
In questa ricorrenza del 27 gennaio nata per ricordare la Shoah, per trarne riflessione e insegnamento, vorrei offrire, a chi ha voglia di leggerla, il sunto di una lunga lettera di Etty Hillesum, scritta gli ultimi giorni della sua permanenza nel campo di smistamento di Westerbork che, di Auschwitz, era l’anticamera.
So che la Repubblica italiana vuole ricordare, con l’istituzione di questo giorno, specialmente la Shoah degli ebrei italiani, ma scelgo l’olandese Hillesum sia perché, a mio avviso, la Shoah non ha né nazionalità né confini, sia perché, insieme a Simone Weil - filosoficamente più complessa - incarna meglio di ogni altro pensiero, tra quelli che conosco, la mia idea che, al negativo, sia bene rispondere con un attivismo amoroso piuttosto che con l’antagonismo.
Hillesum costituisce l'amorosa pensante obiezione all'obiettivo nazista – e a ogni obiettivo altrimenti violento, di cui continuiamo ad avere ampio esempio nel pianeta - di uccidere insieme al corpo anche l'anima/il cuore delle vittime, spingendole al livello di abiezione del carnefice. E, al tempo stesso, offre un esempio concreto di pensiero e di esistenza per costruire quel mondo nuovo, non impossibile, in cui un simbolico di ascolto, interiore/esteriore, permetterà di “andare senza sapere dove” (E. Lévinas) – ossia l’eterno ascolto, l’eterna ricerca - per rispettare il volto dell'altro.
La lettera che scelgo è, tra le sue tutte, la più forte; personalmente mi sembra, nel suo essenziale, direi cinematografico stile, una cronaca molto efficace dell’immane tragedia del suo tempo, forse ancora più atroce nella quasi fotografica assenza di condanna verbale: il giudizio non viene da Etty, viene, sull’onda di un umano diverso sentire, da chi leggendo “ascolta” e, attraverso il suo asciutto, apparente non-giudizio, riesce a “vedere”.
Per chi volesse, il lavoro su www.fabruaria.it è più articolato e completo.

A Han Wegerif e altri

Westerbork, 24 agosto 1943

Dopo la notte scorsa ho pensato per un momento, in tutta sincerità, che ridere ancora sarebbe stata una colpa. Ma poi mi sono ricordata che alcuni deportati erano partiti ridendo – sebbene non molti, questa volta. E forse ci sarà ancora qualcuno che riderà in Polonia – sebbene non molti, temo, di questo convoglio.
Se penso alle facce della scorta armata in uniforme verde, mio Dio, quelle facce! Le ho osservate una per una, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra, non mi sono mai spaventata tanto come per quelle facce. Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: “E Dio creò l’uomo a sua immagine”. Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile.
Ho già detto altre volte che non ci sono parole o immagini capaci di descrivere una notte come questa. Eppure devo annotare qualche cosa per voi – ci si sente sempre occhi e orecchi di un pezzo di storia ebraica, talvolta si prova il bisogno di esser anche una piccola voce. Dobbiamo pur tenerci informati di ciò che accade negli angoli remoti di questo mondo e ognuno deve portare il proprio sassolino, per farlo combaciare con gli altri nel mosaico che a guerra finita coprirà tutta la terra…
Ma i bambini di pochi mesi, le piccole grida penetranti dei bambini, che sono strappati dalle loro culle nel cuore della notte per essere trasporti verso un paese lontano… Quei bambini erano davvero la cosa peggiore. E poi c’era quella ragazza paralizzata che non voleva nemmeno portarsi un piatto per mangiare, e che trovava così difficile morire. E quel ragazzo impaurito: credeva di essere al sicuro e lo sbaglio era suo, improvvisamente gli era toccato partire, aveva perso la testa ed era scappato. I suoi fratelli di razza erano stati costretti a dargli la caccia, altrimenti decine di altri sarebbero dovuti partire al suo posto… e tuttavia a quegli altri è toccato partire “per dare un esempio”. Così lui ha trascinato con sé parecchi buoni amici. Cinquanta vittime per un breve istante di confusione mentale…
La sera prima avevo attraversato il campo. La gente si radunava fra le baracche sotto un cielo grigio carico di nuvole…
Di pomeriggio avevo fatto ancora un giro nella mia baracca d’ospedale, passando da un letto all’altro. Quali letti saranno vuoti domani? Le liste dei deportati sono divulgate all’ultimissimo momento, ma certuni sanno in anticipo di dover partire. Una ragazzina mi chiama. È seduta sul suo letto, diritta come una candela e con gli occhi spalancati. È una ragazzina dai polsi sottili e dal faccino magro e diafano. È parzialmente paralizzata, aveva appena ricominciato a camminare… Se dico che stanotte sono stata all’inferno che cosa ne potete capire voi?...
È impossibile distinguere chi deve partire e chi no, quasi tutti si sono alzati, i malati si aiutano reciprocamente a vestirsi. Parecchi di loro non hanno abiti, i loro bagagli sono stati smarriti o non sono ancora arrivati. Le signore del “Servizio di Approvvigionamento” girano distribuendo vestiti, importa poco che siano della misura giusta… Si preparano dei biberon di latte da portare in viaggio per i neonati…
A poco a poco si sono fatte le sei di mattina, il treno partirà alle undici, si cominciano a cercare persone e bagagli. Gli accessi al treno sono sbarrati da uomini del servizio d’ordine, tutte le persone che non sono coinvolte in questa deportazione devono sgombrare il campo e rimanere nelle baracche. Io m’infilo in una baracca che si trova proprio di fronte al treno…
Improvvisamente uno stuolo di uomini in uniforme verde sciama sull’asfalto, non capisco da dove spuntino. Sulla schiena portano zaino e fucile. Io studio figure e visi e cerco di osservarli senza pregiudizi.
Alla partenza di altri convogli avevamo spesso visto dei tipi ancora abbastanza integri e bonari, che giravano stupiti per il campo fumando la pipa, e parlavano un dialetto incomprensibile – dei tipi con cui non si sarebbe temuto di intraprendere il viaggio. Ora sono inorridita. Questi sono ceffi ottusi e beffardi in cui si cercherebbe invano un piccolo residuo di umanità… È una deportazione punitiva. Devo quasi ridere, la sproporzione tra sorveglianti e sorvegliati è troppo ridicola…
Ora i vagoni merci si direbbero pieni… D’un tratto uno dei bambini esclama: “Il comandante!”.
Lui appare a un capo della banchina di asfalto, come la stella famosa di una rivista che entra in scena soltanto nel gran finale…
Mio Dio, è proprio vero che tutte quelle porte si chiudono? Sì, è così… Un altro pezzo del nostro campo è stato amputato, la prossima settimana toccherà al prossimo pezzo, qui si vive così da più di un anno, settimana dopo settimana. Siamo rimasti in poche migliaia. Già centomila nostri fratelli di razza olandesi faticano sotto un cielo ignoto, o stanno imputridendo in una terra ignota. Non sappiamo nulla del loro destino. Forse lo sapremo presto, ognuno a suo tempo, perché quello sarà anche il nostro destino – non ne dubito nemmeno un istante. Ma ora devo andare a dormire un’oretta, sono un po’ stanca e la testa mi gira; e poi devo passare in lavanderia a cercare una spugnetta smarrita. Prima però vado un poco a dormire, e per il resto sono fermamente decisa a ritornare da voi dopo alcune peregrinazioni. Per ora vi saluto un’altra volta, miei cari.