cultura

Il ritorno delle Ceramiche Imbert a Orvieto. I magnifici pezzi in mostra al Museo Archeologico Nazionale

lunedì 15 marzo 2010
di laura
Il ritorno delle Ceramiche Imbert a Orvieto. I magnifici pezzi in mostra al Museo Archeologico Nazionale

Si è inaugurata sabato 13 marzo a Orvieto, preceduta da una presentazione presso la Chiesa di San Giacomo Maggiore, la mostra "Connoisseur e antiquari. Il ritorno delle Ceramiche Imbert a Orvieto. 1909 tra collezionismo e tutela". Curata da Lucio Riccetti e supportata da un qualificato Comitato scientifico internazionale, la mostra, accompagnata da un prezioso catalogo che si aggiunge alla collana dei beni regionali dell'Umbria, riporta a Orvieto, dopo 100 anni, le pregevoli ceramiche medievali orvietane che il bizzarro e avventuroso antiquario francese Alexandre Imbert (Napoli, 1865 - Buenos Aires, 1943) aveva messo insieme proprio a Orvieto nel 1908, tra il fervore di scavi che la città stava attraversando, per il maggiore dei suoi clienti, lo statunitense John Pierpont Morgan.

Ammirare i 34 pezzi restaurati della collezione Imbert (che ne comprende 50) presso le sale del Museo Archeologico nazionale di Orvieto, dove resteranno esposti fino al 6 giugno 2010 è, per vari motivi, un privilegio da non perdere. Dall'epoca del ritrovamento ad oggi, le ceramiche Imbert hanno fatto soltanto delle fugaci apparizioni: nella Galerie di Imbert, in via Condotti a Roma; al Pavillon de Marsan dell'Union Central des Arts Décoratifs, dal 22 maggio al 15 ottobre 1911, in occasione della mostra parigina delle Faïences Italiennes de la collection Al. Imbert; poi sarebbero scomparse, seguendo le vicissitudini della collezione Imbert, per ricomparire a Londra nel 1947, fino a trovare stabile dimora, nel 1951, presso il Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Ed è dai magazzini del Museo di São Paulo che, per un accordo con la Sovrintendenza dei beni archeologici dell'Umbria, le ceramiche sono state condotte a Perugia per essere restaurate.

La mostra di Orvieto, dopo una prima esposizione già avvenuta a Perugia, non è tuttavia una replica. Il restauro, infatti, si è rivelato più complesso e lungo del previsto e non è stato quindi possibile esporre tutte le opere provenienti da San Paolo nella mostra di Perugia. Ora invece, proprio a Orvieto in cui sono state ritrovate e da cui sono partite, le opere vengono rese visibili e restituite al pubblico internazionale degli intenditori per intero. La speranza è che la mostra possa replicarsi ed ampliarsi altrove - in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Ungheria, negli Stati Uniti e negli altri paesi che custodiscono parti della collezione raccolta da Imbert per Morgan - prima di tornare alla loro stabile dimora in Brasile.

La corposa pubblicazione di oltre 500 pagine che accompagna la mostra, anch'essa a cura di Lucio Riccetti, è tutt'altro che un semplice catalogo. Attraverso una serie di saggi di vari studiosi, come il titolo esemplifica - Tra collezionismo e tutela - rende conto dell'appassionato fervore che, nei primi anni del Novecento, accompagna l'iter della legge 364/1909 e, con essa, il concetto del tutto nuovo di non replicabilità dell'opera d'arte, che riuscì a dare dignità artistica a quei manufatti che, come la ceramica, non avevano ancora ottenuto lo status di opere d'arte, passaggio che avverrà soltanto con la legge in questione. Viene inoltre esplorata in profondità la funzione di tutela del collezionismo. "Le mostre di Perugia e Orvieto - ha affermato Lucio Riccetti nel presentare l'evento e il fervore di nuovi studi che lo ha connotato - vogliono sollecitare la memoria e aiutare a non dimenticare, vogliono sottolineare il ruolo delle colezioni e dei collezionisti come strumento di tutela".

Quello che distingue Imbert dai tanti altri collezionisti, antiquari, marchand-amateur e agenti di musei che, negli stessi anni, scavano o acquistano ceramica orvietana, e quello che ancor più lega la sua preziosa collezione al nostro territorio, è l'intuizione che ebbe, durante lo scavo a Orvieto, di affidare al giovane studioso e archeologo orvietano Pericle Perali (Orvieto, 1884 - Roma, 1949) prima una ricerca d'archivio, poi la stesura di un vero e proprio libro. Il risultato è "Ceramiche orvietane dei secoli XIII e XIV. Note su Documenti", un volume in 4° di 44 pagine e 14 tavole stampato in "edizione di dugento esemplari non venali" da Forzani e C., tipografi del Senato, nel 1909, libro che Imbert dedica a J. Pierpont Morgan. Per il magnate americano, l'antiquario confeziona dunque un esemplare unico che, oltre alla coperta in cuoio con impressioni in oro e ai fogli di risguardo in raso damascato, contiene un inserto di 15 tavole ad acquerello con la riproduzione delle 50 ceramiche selezionate dallo stesso Imbert (o forse da Perali); in tutte le altre copie sono riprodotte soltanto 48 ceramiche, in 14 tavole fotografiche in bianco e nero. Il libro era ed è anche un oggetto raro. Un catalogo da collezionare, che si riceveva soltanto in dono. Il marchand-amateur lo utilizzò come vero e proprio biglietto da visita e, molto oculatamente, ne fece omaggio, sempre con dedica autografa, a collezionisti facoltosi, direttori di musei, studiosi, possibili clienti. La stesura del libro, che è stato ristampato qualche tempo fa in copia anastatica a cura del Rotary Orvieto, permise a Perali di riferire al 1211 il primo vascellaro orvietano, permettendo così di datare la ceramica orvietana come la più antica tra le altre note dell'epoca medievale.

Tra i notevoli pezzi della collezione spicca, superbo tra tutti, il grande contenitore scelto come emblema della mostra, mirabilmente illustrato dal Direttore regionale del MiBAC e Presidente del Comitato promotore del progetto su Imbert, Architetto Francesco Scoppola.

La grande conca a due manici raffigura una regina con un giglio, collocata tra due oche o due cigni (simboli della guardiania, della custodia e della bellezza) e tra due elementi vegetali: quello che la regina ha di fronte reca due grandi fiori, che possono essere intesi come allegoria della "parola fiorita" e del sole. Alle spalle della regina, si trova invece la pianta priva di fiori, sovrastata da una luna beffarda, simbolo di instabilità, di oscurità e di riflessione. Questo motivo, tra i tanti significati che reca, potrebbe dunque alludere anche allo scorrere del tempo, che offre, attraverso i suoi effetti manifesti, l'illusione di poter vedere il sole, che però resta invisibile e non è infatti effigiato. O per lo meno potrebbe suggerire il dispiegarsi della sua luce. Ma subito quel futuro illuminato carico di attese e di promesse e quel presente tangibile, reale ma effimero (quando viene colto il fiore ha i petali chiusi), diviene passato e si trova, come sfiorito, alle nostre spalle. Perdendo il sapore e l'interesse dell'esistente. L'effetto di vanitas è ancora maggiore se si pensa di vederla comparire, questa figurazione, come in un rito ogni giorno a tavola per servire il cibo.

"Quest'ombra - scrive Francesco Scoppola - è possibile percepirla nel bandato dell'abito asimmetrico, quasi fosse un tratteggio delle parti rivolte alla sinistra del riguardante. E' rara e preziosissima la grazia di coloro che attraverso opere imperiture, o per lo meno più durature delle persone, confezionate il più delle volte non per se stessi né per la propria ricchezza, fama e gloria, ma - specie nel medio evo - in forma anonima per altri di là da venire, offrono invece al futuro un po' di tutta quella luce che è stata realmente accesa (un po' di quei cieli che per vederla con Giotto davvero sono stati srotolati) e che solo per un malinteso senso della storia ci pare oscurata (o ci paiono inesorabilmente avvolti). Specie nei convulsi ritmi nei quali abbiamo ridotto l'esistenza è difficile capire cosa siano oggi i ricordi futuri, attraverso le speranze, le scommesse, i doni disinteressati del passato e del presente, ma la prolungata e pacata (quasi divagata) contemplazione dell'arte a volte, tutto ad un tratto, lo consente. Una nuova diversa accezione dell' "al di là" si dispiega allora in questo emblema che è pur sempre di governo e di regno: al di là di sé, al di là del presente, oltre il passato, con attenzione amorosa al futuro, ad ogni attimo quotidiano, all'incognito, nella consapevolezza che tutto ciò a cui abbiamo partecipato e a cui altri hanno partecipato prima di noi o parteciperanno dopo di noi, regalmente (in una dimensione di eternità e di misteriosa selezione del meglio a cui l'arte ci avvicina si potrebbe dire anche contestualmente) è vero, esiste".