editoriale

Dopo tanta rassegnazione sarebbe igienico mandare a casa chi ha governato Orvieto.

giovedì 13 novembre 2003
di Nello Riscaldati

Mi permetto di chiedere ospitalità al suo giornale onde poter formulare
pubblicamente alcune riflessioni.

Lo stato di disordine e di confusione che caratterizza l'attuale vita
politica italiana si percepisce, come è naturale, anche in Orvieto. La
nostra è una città dove si fronteggiano da una parte la spossante monotonia
di un potere sostanziato da mezzo secolo di compatto e profondo rosso,
talvolta litigante con impegno ma pronto a riaccorparsi, come è ovvio, in
vista di circostanze elettorali, dall'altra un'opposizione (non quella in
Consiglio, comunque troppo esigua alla bisogna), che poco si oppone o poco
sa opporsi e che naviga cautamente sottocosta, ma non come una flotta in
assetto da battaglia od in vista di uno sbarco, bensì come tante scialuppe
con presumibili avarìe al timone o buchi nel fasciame.

 E non è con delle
scialuppe in avarìa che si sbarca in Normandia. Una mossa sensata sarebbe
quanto mai opportuna.
E' cosa arcinota come il potere qui in Orvieto, ma probabilmente un pò
dovunque, si sia sempre retto su due solidi pilastri portanti, uno teorico e
l'altro pratico. Il teorico afferma che: l'abilità di un politico raggiunge
l'eccellenza quando costui riesce a far apparire i propri interessi come
valori legittimi ed i valori degli altri come interessi illegittimi, e
l'altro, il pratico, riguardante cioè l'azione quotidiana, che suggerisce al
politico come "è necessario fare l'impossibile affinchè il popolo ci voti,
ma, una volta fatto, non dobbiamo assolutamente permettergli di romperci i
coglioni".

Incardinato quanto sopra il suddetto popolo dapprima impreca, poi borbotta
e, per ultimo, tace. Il politico lo sa e ci conta, e come se ci conta.
E' anche da riconoscere come, nel volgere di pochi anni, si sia passati
dall'età dei garofani e dei canti, dall'età del comizio a sant' Andrea con
bandiere, tromboni e trombette, dagli "abbasso" e dagli "evviva", dalla
passione politica e dal sacrificio militante, a quella dei parlottamenti
stradali, delle occhiate d'intesa, delle smorfie d'assenso o di dissenso,
dei convegni segreti in siti remoti, del mercanteggiamento delle alleanze,
delle poltrone, delle candidature, degli appoggi e dei finanziamenti.
E tutto questo mentre, come osserva Trilussa. "il popolo, sulla riva,/magna
le nocchie e strilla/evviva, evviva, evviva."

Ora sarebbe non solo opportuno, ma anche igienico, se, dopo cinquantanni, la
città tentasse elettoralmente di cambiarsi d'abito, sarebbe addirittura
educativo, sarebbe infine ovvio, perchè la democrazia è confronto, è
avvicendamento, è cioè consentire a ciascuno di mettersi alla prova, di
soffrire, magari, la sconfitta, ma di poter tentare poi la vittoria. E se
questo, nei secoli, qui da noi non si è mai verificato, è più che legittimo
ipotizzare che l'eccesso di conservazione del potere derivi da qualcosa di
diverso che non da un presunto e dichiarato eccesso di buon governo del
medesimo.

Forse il controllo capillare che il potere stesso esercita
metodicamente ed ossessivamente fino alle sue estreme propaggini, incute in
chi lo subisce quei sensi di paura e di rassegnazione che si risolvono poi
nel disinteresse e nel rifiuto e che hanno concorso a far sì che sulla città
si sia cementata una specie di cappa antirumore che tutto assorbe e che
nulla lascia trasparire.

Classico esempio, frequentissimo, è quello del commerciante o dell'artigiano
il quale, pur essendo di destra o di centro, vota sinistra perche "tiene
famiglia". Ed anche questo il potere lo sa e ci conta. E come se ci conta!
Eppure nella nostra città, così politicamente pietrificata, e dove si
agitano ed agiscono partiti ex-questo ed ex-quello, e qualcuno addirittura
ex-tutto e dove personaggi pittoreschi, per lo più sedicenti dirigenti di
cosiddette liste-famiglia, del tipo cioe "io, la moje, la sòcera e 'r
gatto", si affacciano da ogni portone dichiarando al passante frettoloso di
avere in tasca liste, consensi e soluzioni, e ben pronti, in caso di
ballottaggi, a a vendere i pochi voti a prezzi da Christie's e da Sotheby,
in questa città, dicevo, cominciano a levarsi, sempre più frequenti, le voci
di concittadini che sperano, tentano, vogliono a riescono ancora a credere
in un futuro in positivo, in un futuro cioè dove alla monotonia del
conformismo, del conservatorismo e del pensiero unico, possa sostituirsi
quella pluralità di visioni del mondo che, a livello centrale, l'opposizione
invoca, ma che, là dove governa, puntualmente elude.

Queste voci ci sono e si stanno facendo sempre più numerose, io le ho
ascoltate ed altri le ascolteranno. E' necesario amplificarle e non lasciale
disperdere. E' necessrio cioè promuovere un'esperienza di coscienza civile
sul chi, sul come e sul perchè questa nostra terra, e cioè la città, le
borgate, i paesi e il territorio, è stato, e dovra essere governata. Perchè
si tratta della terra che fu dei nostri padri, che oggi è nostra e che
domani sarà dei nostri figli.

Ed io credo che sia questo il momento di afferrare con le unghie il
coraggio, di far si che alle voci isolate sia consentito di diventare un
discorso e che da tale discorso possano scaturire quelle idee che poi
andranno a sostanziarsi ed a strutturarsi in proposte ed in progetto.
D'altra parte io penso che sia meglio tentare di agire prima che borbottare
o tacere dopo e credo fermamete che vi siano momenti nella storia della vita
di ciascuno nei quali sia più giusto scendere in campo che restarsene nel
mucchio a mangiare le nocchie, sugli spalti dello stadio del Paese dei
Balocchi.

 


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