editoriale

Il calice del Papa e l'Orvieto perduta per sempre

mercoledì 27 agosto 2003
di Un Orvietano attento

Bei tempi, il 1964. Erano gli anni magici dell'Orvieto non ancora "faraona" quelli che videro gli artigiani nati e cresciuti tra vicoletti e fucine riuscire a produrre un capolavoro che fece restare a bocca aperta Papa Paolo VI. E sì che il pontefice di fatica e rotear di martello sull'incudine doveva saperne, avendo amministrato a lungo le pecorelle dell'operosa Milano, città di fabbriche e sudore. Già, Papa Montini era atteso a Orvieto e sulla rupe era tutto un correre, un preparare, un organizzare.

Anche il vescovo, allora, era un vescovo: monsignor Virginio Dondeo si arrovellava a pensare al dono per il Papa e, da uomo di prim'ordine quale era, alla fine trovò la soluzione. Non la pompa magna del regalo sfarzoso, non un vuoto simbolo di ricchezza, piuttosto un'opera artigianale che coniugasse il valore dei nostri artisti all'immagine della città e della sua Chiesa.

Un calice, ecco la scelta giusta. In oro e argento, finimente cesellato e appoggiato all'interno di un altrettanto pregevole scrigno lavorato con una tecnica, l'"ageminazione", che era morta quando si erano fermate, nel Medioevo, le mani sapienti di Ugolino di Vieri e poi, dopo secoli di buio, magistralmente risorta con un orvietano mezzo tedesco e tutto burbero, il sigaro perennemente acceso e nel cuore la pietra dolorosa di un figlio morto per l'unico spezzone di bomba caduto sui nostri sampietrini durante la Seconda Guerra: Maurizio Ravelli.

Fu lui, negli anni '50, a prendersi in casa, pardon in bottega, un ragazzetto che ancor oggi rimpiange la magrezza di allora, un figlio del popolo e del talento chiamato Marcello Conticelli, poi autore di tutto ciò che è ferro e geometria stilistica nel Corteo storico della sua città, del nuovo Reliquiario del Corporale del Miracolo di Bolsena e di mille altre opere sparse in chiese e case private di Roma, Firenze, Arezzo, Bibbiena (la pregevole cornice della Madonna del Sasso) e chi più ne ha più ne metta anche oltrepassando i confini nazionali.

Si capivano, i due, a cenni e grugniti, Ravelli vedeva crescere a poco a poco il giovinetto che lo imitava sbirciandolo soltanto di lato, tanto quel "mostro" di bravura finito già in vita sui libri di storia dell'arte gli incuteva batticuore. Bottega di grandi lavori e grandi incontri, negli anni della Guerra e appena dopo di tanto in tanto vi giungeva Luigi Barzini, grande giornalista, prima che la città per anni l'ignorasse per poi tentare vanamente di riscattarsi con un premio noto soltanto nei circoli privati dei sempre più invecchiati addetti ai lavori.

E fu proprio Conticelli, con il fido scudiero Angelo Bucaioni e l'assistenza magistrale di un altro grande dell'artigianato nostrano, Luciano Coppola, a raccogliere nel proprio antro-fucina di via Vivaria, la sfida del vescovo. E il calice nacque, splendido e splendente, prima nella mente sagace del disegnatore, l'architetto Alberto Stramaccioni, uomo di stile, di gusto e di battute al fulmicotone, e poi tra le dita di Marcello, di Luciano, di Angelo.

 Fu un salto a ritroso nel tempo: in quei mesi fatati il Medioevo tornò a vivere nei modesti spazi di una bottega annerita dal fumo, tra musica classica a gracchiare dalla radio perennemente accesa e botte di martello. Don Marcello Pettinelli, più tardi, seppe descrivere nel più bell'articolo giornalistico mai letto dagli orvietani la febbre di quel fervore, il talento dei protagonisti, le intese e le mezze frasi, le polemiche tra fabbricieri per mettersi d'accordo e tornare di nuovo a polemizzare, l'ansia di riuscire nell'impresa magari fermandosi un quarto d'ora e staccando la presa dall'arte con l'"A" maiuscola soltanto per riparare la macchinetta del caffè della sora Linda dalla quale inopinatamente si era dissaldato il manico.

D'altra parte l'artigianato di quegli anni non era ancora irrigimentato nelle vacue sigle di oggi, tra confederazioni-sindacati-consorterie che tutto hanno appiattito e pianificato al basso, facendo diventare eroi i venditori di chincaglierie. E venne il gran giorno e Papa Montini ricevette dalle mani di Marcello, Alberto e Luciano il dono della città di Orvieto. Il pontefice ascoltò con meraviglia il racconto delle fatiche degli artigiani e ammirò stupito il loro prodotto, li ringraziò con parole semplici e composte, li elogiò sotto gli occhi ormai quasi tecnologici delle telecamere dell'Eurovisione.

L'Europa intera seppe che ad Orvieto, in una bottega mezza sbarbicata a due passi dal Palazzo del Popolo nel quale allora regnava la signora Lea Pacini (altra grande poi brutalmente dimenticata), era nato un tesoro, scoprì che l'Italia delle cento città pulsava ancora di maestrìa, apprese che l'arte mondiale poteva far conto su una città e sui suoi cittadini, impegnati, tutti, a sostenere un'opera nata dalla gente semplice, dalla fatica del quotidiano impegno, dalla verità delle mani e non dall'escogitare machiavellico di politicanti da strapazzo. Orvieto segnò una delle pagine più gloriose della propria storia.

E quando, alcuni mesi più tardi, Papa Montini si recò in visita ufficiale in India, nella cattedrale di Bombay, al cospetto di fedeli senza scarpe e senza futuro straziati dalle velleità coloniali di una di quelle superpotenze che ancora imperversano e guerreggiano, nelle mani del Primate emozionato consegnò calice e scrigno, con stringate parole: "A voi, alla Chiesa più povera al mondo, dono il più bel regalo che abbia mai ricevuto nella mia missione di Papa della Cristianità".

Tutto questo per non dimenticare, per non far cadere nell'oblìo creato da un "dopo" fatto di corse al potere e giochi di partito che tutto sacrificano e tutti trascurano, cioè il presente della città, l'Orvieto di quella stagione incantata.