editoriale

Uniti sotto la bandiera della Pace

domenica 16 febbraio 2003
di Laura Ricci
Non starò qui a riportare, in dettaglio, dati o particolari su quello che può essere a ragione considerato il più grande evento di pace di massa di tutti i tempi: la giornata - mondiale - del 15 febbraio. Organi più o meno autorevoli - e anche, è il caso di dire, più o meno oscurantisti - lo hanno già fatto meglio e più diffusamente di quanto potrei io. Quelle che voglio concedermi, condividendole con chi legge, sono, al solito, piccole notazioni in margine: redatte con la mente, ma anche con le percezioni fisiche e reali di chi, in un angolo di mobilitazione planetaria, in qualche modo c’era, con tutti i sensi, ben viva e presente.

Con stupore, ma anche con gioia, a giochi fatti apprendo che, tra le centinaia di milioni di persone che, per dire no alla guerra, hanno percorso le capitali di tutto il mondo, ero, a camminare lentamente, fin troppo lentamente per il grande afflusso, proprio nello spicchio planetario che, di persone, ne ha viste di più: una Roma limpida, colorata, tiepida di sole; una Roma senza i veicoli abituali, con un traffico variopinto e sonoro ma solo umano, con un’aria irresistibilmente buona e diversa - direi di pace - anche per le orecchie e le narici.
Poi, se ci penso meglio, resta la gioia, lo stupore viene meno.
È naturale - mi dico - è normale che proprio a Roma si sia fatto l’en plein: perché siamo ancora - grazie a ogni cielo, cattolico e laico - un popolo disobbediente e, la piena oltre ogni previsione, l’abbiamo fatta nonostante.
A Roma ci sono i cattolici infatti, più che in ogni altro luogo, sciolti e di molte sigle, e i boy-scout e i preti e i frati e le suore che da tempo hanno capito come va, economicamente e non solo, il mondo e che - come Cristo del resto - sanno indignarsi e disobbedire quando è il caso, nonostante chi vuole reggere le sorti del globo. C’è un papa disobbediente anche lui, che fa, nonostante altri, inadempienti, il missionario di pace, rifiutando di credere - come del resto una moltitudine estesa non propriamente rivoluzionaria ma di semplice buon senso - che possano esistere guerre preventive o giuste.
A Roma sono scesi, anche all’ultimo momento e per sano dispetto, tutti quelli che hanno voluto vedere e sentire e fiutare in vera corposa diretta, nonostante l’oscuramento della rai nazionale e di quella pseudolibera del gran capo mediatico. Mai dire no assolutamente, non c’è nulla di più eccitante del gusto del proibito.
E a Roma, infine, c’è anche quel governo che, poco curandosi di ogni dibattito parlamentare, concede agli USA, alla vigilia di una grande giornata di pace, un indiscriminato lasciapassare di guerra sul nostro territorio. Verrebbe quasi da dire: “Grazie Martino, sicuramente hai fatto uscire dal guscio qualche buon numero di insperati pacifistiâ€.

Comunque, nonostante tutto è andata: oltre ogni previsione, in tutto il mondo è stata una grande giornata. Mi piace pensarla come la globalizzazione della pace; come un processo nuovo e possibile, reale, inarrestabile.
Le folle del mondo non manifestavano contro, ma in nome di qualcosa; non per negare, ma, in modo quanto mai pluralista e trasversale, per affermare il diritto alla non menomazione e alla vita. Non c’è stata reazione, ma il manifestarsi di una volontà assolutamente positiva.
Uno degli slogan del corteo era “Fuori la guerra dalla storiaâ€. Niente di originale, ma originale è la determinazione a farne un assunto finalmente reale, che si materializza nei corpi visibili di tante e così diverse persone.
Forse per una deformazione professionale, mi sono venuti in mente gli storici francesi degli Annales che, già da tanto, la guerra l’hanno bandita dalla storia come trasmissione culturale, mostrando come, invece della storia delle battaglie e dei re, si possa fare, più produttivamente, quella della vita quotidiana e delle persone. Perché la storia, quella guerresca, in fondo è stata fatta sempre, in nome di tutti, da una minoranza.
Ma intanto è cambiato il mondo, quello reale, e forse siamo pronti, nonostante i grandi, a far uscire la guerra non tanto dalla storia - che dipende dal punto di vista - ma dalla vita.

Oggi, infatti, pochi potenti non possono parlare più in nome di molti, e non solo perché centinaia di milioni di persone scendono in piazza a chiedere la pace. Quella è una conseguenza. Semplicemente perché esistono molti modi per comunicare e organizzarsi: comunicazione e informazione volano per un’aria non ancora addomesticabile, possono giocare tutto e il suo contrario.
La pace globale, ad esempio, nonostante le censure ufficiali vola sul web da tempo e, da un’inarrestabile incontrollabile rete virtuale si materializza in una rete di carne, quella della pratica di tante organizzazioni e di tanti singoli.
La manifestazione di ieri, decisa in forma europea al Forum di Firenze, trasformata in mobilitazione mondiale a Puerto Alegre, è arrivata alla coscienza di tanti per numerosi canali, compresi i molti net pacifisti e solidali del globo. Guardando le giovani e i giovani che erano la massiccia innegabile maggioranza pensavo, con ironica allegria, alle tre i di Silvio Berlusconi, quelle con cui voleva incantare, a senso unico, gli ingenui serpenti. Un pochino, a dire il vero, gli si sono rivoltate contro: l’inglese e internet servono non solo in azienda, ma anche per capirsi da Firenze a Puerto Alegre; e lo spirito imprenditoriale ci vuole, indubbiamente, va bene anche per l’organizzazione concreta ed estesa della solidarietà e della pace.

Sono una persona intera, adoro il web, le immagini e la carta stampata, ma la vita la voglio anche di odori, suoni, colori, sapori e movimenti dal vivo. Mi piace questa generazione che, mentre in tanti luoghi deputati si continua a rappresentare come vero un mondo che non c’è, sta costruendo, proprio dall’etere che può non sembrare vero, quel mondo diverso e reale che alcuni cosiddetti grandi non si rassegnano ancora a vedere; senza dimenticare di avere un corpo, mostrandosi, agendo massicciamente e ovunque quando è il caso.

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