editoriale

Commuoversi per una vecchia canzone degli Inti Illimani

venerdì 24 maggio 2002
di Fausto Cerulli
Non mi reputo un esperto di musica, anche se non credo che sia necessario saper solfeggiare un brano per apprezzarne la musicalitŕ. Comunque ieri sera al palazzo dei Sette non solo di musica si trattava ma di cultura, di arte e, sia pure in tono modesto, di storia nostra. Musica sudamericana, soprattutto cilena, e pensavo a quando,( quanto tempo fa oppure oggi?), sapemmo che Pinochet aveva costretto al suicidio Allende, e stava incarcerando mezzo Cile, e ci trovammo in diecimila in una piazza di Roma a protestare: e fu lě che conoscemmo gli Inti Illimani, che cantavano “ el pueblo unito jamas sera vencido” e invece il popolo fu vinto, altroché se fu vinto. Ieri sera, al Palazzo dei Sette, eravamo parecchi ad ascoltare le canzoni di Violeta Parra o di Victor Jara; i giovani non č che fossero molti, erano piů numerosi i professori. Per cui pensavo che sarebbe stato giusto se i professori avessero spiegato, rompendo la monotonia dei programmi ministeriali, la vicenda del Cile, che č poi quella dei minatori massacrati in Bolivia o quella dei desaparecidos d’Argentina. Forse i giovani sarebbero stati piů numerosi, e magari per una sera avrebbero rinunciato all’extasi ( pardon volevo dire estasi) del rimbambimento in discoteca.

C’era qualche studente dell’Istituto Professionale, per via di una professoressa impegnata e per via che, per ragioni di classe, gli studenti del Professionale sono da sempre i piů impegnati. Forse perché non hanno prospettive di futuro universitario, ma solo sbocchi immediati di lavoro: e dunque la politica la sentono come una faccenda personale, pragmatica; nelle altre scuole la politica č teoria senza prassi. La musica ed i testi delle canzoni, nell’ atrio della vecchia Posta, avevano echi strani, sussulti di memoria; riaprivano vecchie ferite, costringevano a pensare ad antichi entusiasmi ed a continue delusioni. Mi chiedevo quanti dei presenti, almeno quelli piů giovani, sapessero che gli autori di quei testi e di quelle musiche erano stati ammazzati come cani da gente a cui anche la musica faceva paura. Specialmente quando era musica che veniva dal popolo ed al popolo tornava. Pinochet, come ti sbagli, amava la musica sinfonica, oltre a qualche marciaccia militare. Come Goering, che non prendeva sonno se non ascoltava Wagner.

E’ stato a quel punto che ho avuto l’ impressione di assistere a un rituale; di quelli che se conosci il senso puoi anche provare il desiderio di piangere; se non lo conosci, batti il ritmo con le mani e con i piedi e magari ti metteresti a ballare. Ho visto qualche viso solcato dalle lagrime; in mezzo al pubblico c’era qualche sudamericano, anche anziano. E quella, per lui, era musica di una tragedia vissuta in prima persona. E pensavo che quando successe quello che successe al Cile, e quando succede quellp che succede all’Argentina. ci sentivamo tutti sudamericani. Per questo, se non fossi quel cinico che sono, avrei pianto, magari volentieri ed a sfogo. Quando qualche canzone cantava la protesta ed il dolore di quei giorni, ci scambiavamo sguardi d’intesa, noi che quei giorni avevamo compatito nel senso di patire insieme. E in quegli sguardi leggevamo e facevamo leggere l’accettazione di una sconfitta, la nostalgia di una speranza tradita. Alla fine speravo che avrebbero cantato quello che fu l’inno di quei giorni e che parlava del popolo unito che non puň essere vinto. No, quella canzone del pueblo e per il pueblo non ha turbato gli echi della vecchia Posta. Perché i popoli sono stati vinti, e l’unitŕ gli č servito solo per morire uniti. Ma una ragazza orvietana ha letto una poesia di Violeta Parra; ed un’altra ha cantato “ Gracias a la vida “. Nella staffetta della buona coscienza che diventa disperata speranza, lasciamo alla loro commozione il testimone.