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Intercultura, immigrazione, pregiudizi: una breve storia italiana

lunedì 18 dicembre 2006
di Giuseppe Greco
Questo scritto ha costituito la relazione introduttiva del Dr. Giuseppe Greco, Dirigente Scolastico dell' Istituto Comprensivo Alto Orvietano - Fabro, già membro della Commissione Intercultura del MPI, all'incontro "Gli altri tra noi", tenutosi a Fabro lo scorso 6 dicembre per la presentazione del XVI Dossier Statistico Caritas - Migrantes sull'Immigrazione 2006. La riflessione sull’educazione interculturale si è sviluppata in parallelo ai fenomeni economico-sociali che ne costituiscono il riferimento. Nata come lotta al pregiudizio, si è poi evoluta come educazione multiculturale, educazione alla mondialità, e solo in anni più recenti è divenuta educazione interculturale. Possiamo sommariamente scandirne i vari passaggi facendo riferimento alle fasi storico - sociali correlate. Negli anni ‘50 /’60 il problema principale veniva visto in termini di lotta al pregiudizio che era, oltre che la questione riguardante la razza ( l’eco dello sterminio degli ebrei non si era ancora spenta né c’erano i tentativi revisionisti di oggi), anche una questione interna, legata all’immigrazione di enormi masse di popolazioni meridionali nelle zone industrializzate del nord. In quegli anni nei libri di scuola non si fa più menzione delle rivendicazioni nazionalistiche del fascismo , di cui erano stati infarciti i libri di scuola per più di vent'anni, ma neanche delle reali atrocità del colonialismo italiano, rimosse entrambe, dalla cultura e dalla scuola italiana. Un libro in questa direzione ci può aiutare a capire a che livello era la riflessione teorica.. T. Tentori ne “Il pregiudizio sociale” (ed. Studium, Roma 1964) analizza dal punto di vista antropologico, nei suoi aspetti individuale e sociali, i vari tipi di pregiudizio: tra comunità, anche tra i piccoli comuni, tra i sessi, tra i vari ceti sociali e territoriali, tra razze ( nonostante le dichiarazioni dell’Onu e i documenti scientifici dell’Unesco che confutavano già da allora qualsiasi realtà scientifica al concetto stesso). Nelle scuole, nella pubblicistica, nel cinema e nella televisione questi temi sono comunque marginali. Poco è rimasto, nella produzione artistica e culturale dell’epoca, di quell’enorme processo che ha portato milioni di meridionali ad integrarsi , in modo certamente non facile e non indolore, nelle comunità del nord. Come poco era rimasto dell’ epopea che aveva portato tra fine ottocento e primi decenni del Novecento, milioni d’italiani all’estero e in Nord America in particolare. Negli anni ’70 le lotte dell’emancipazione operaia, mettono in ombra queste questioni, si ritorna a parlare di questione meridionale, come necessità di garantire un processo di sviluppo simile a quello del nord anche nel sud del paese. L’integrazione, anche grazie alle lotte e alla comune cultura di fabbrica degli operai del nord e del sud, in qualche maniera avviene, tenuto conto che due potenti legami comuni tra cittadini del nord e del sud esistevano: la comune religione e una certa comunanza linguistica, via via accentuata dall’esposizione al linguaggio televisivo. Ma è bene non dimenticare che per gran parte degli anni settanta si vedono ancora affissi sui portoni degli stabili di Torino e di altre città avvisi del tipo “ non si affitta a meridionali” spia di un disagio mai del tutto assorbito che il fenomeno dell’intolleranza e del razzismo in anni a noi più recenti avrebbe esplicitamente fatto esplodere facendone uno dei motivi permanenti dell’agenda politica. Alla fine degli anni settanta inizia lentamente un fenomeno nuovo: si diventa terra di immigrazione. Parallelamente alla crescita della presenza di stranieri crescono anche le prime comunità da loro fondate soprattutto nelle grandi città, e intorno ad esse gruppi di volontariato, che trovano nel sostegno agli stranieri uno dei canali attraverso i quali si esprime l’impegno sociale, e qui la Caritas è in prima fila. Nascono le prime feste multiculturali legate ai vari gruppi-comunità ed è questo un primo segno di scambio, d' integrazione, di quello che poi si definirà la “pedagogia del cous-cous”, cioè del primo ed essenziale modo di confrontarsi con gli altri mostrandosi, reciprocamente, i diversi modi di rapportarsi con il cibo , il vestire e la cosiddetta “vita materiale”. A questo cambiamento di scenario e all’ingresso di quote sempre più significative di immigrati si accompagna un cambiamento del clima culturale: si incomincia a parlare di educazione multiculturale e di educazione alla mondialità. La spinta in questa direzione viene dagli studi di antropologia che mettono in luce i diversi lati del problema e la necessità di relativizzare i punti di vista culturali, non solo per evitare i conflitti, ma per il maturo riconoscimento che le culture (tutte) nelle loro diversità sono patrimonio inalienabile degli esseri umani. Se potessimo riassumere con uno slogan potremmo definire questa fase come quella di emersione e difesa delle diversità : non solo etniche, ma anche di genere e dei “diversi” (problema degli omosessuali , dei portatori di handicap, dei nomadi ecc.). La multiculturalità proposta da vari gruppi, associazioni ed ONG presuppone, al fondo, i concetti di convivenza e tolleranza; si sostiene che le culture sono tutte degne di essere rispettate, ma ognuna è vista come autosufficiente. La società è fatta di vari gruppi: ognuno è degno di essere accettato. Dietro questo accettarsi reciprocamente e considerare e considerarsi pari agli altri si nascondono le diversità reali di opportunità e di chance che i vari gruppi hanno nella divisione sociale del lavoro. Gli stranieri che vengono in Italia vanno a svolgere lavori che gli italiani difficilmente accetterebbero di fare alle stesse condizioni. Ma gli anni ottanta vedono il sorgere di episodi di aperto razzismo che incominciano a scalfire una certa immagine dell’Italia in cui le cose sarebbero state sempre “temperate” dalla presenza dell’ “egualitarismo cattolico”, in cui le leggi razziste del ’38 non sarebbero state rigidamente applicate e il nostro fascismo non si sarebbe mai macchiato di crimini paragonabili a quelli dell’olocausto. Se ripercorriamo le cronache giornalistiche degli anni ottanta (ed oggi lo si può fare agevolmente anche a casa grazie alla messa su CD Rom di intere annate di grandi giornali) si può scoprire che nel 1985 i temi del razzismo appaiono sul quotidiano “Repubblica” molte volte e non solo nelle pagine di critica per recensire qualche film Nord-Americano che fa della lotta al razzismo il proprio esplicito obiettivo, ma perché giocatori di colore vengono fatti oggetto di attacchi razzisti nella civilissima Torino e, alla fine di Luglio del 1985, al grido di “sporco negro e comunista” un giovane di 16 anni, Giacomo Valent, viene ucciso da due suoi compagni di Liceo a Trieste. Anche in Italia ci sono reazioni a questi tragici fatti, ma non sono paragonabili all’ampiezza del movimento S.O.S. racism che in Francia, nelle manifestazioni di piazza, raggiunge l’ampiezza dei cortei del ’68. Le cose non migliorano negli anni ’90 e la cronaca registra molti più episodi perché crescono sia il numero degli immigrati che gli episodi di razzismo. Negli articoli di “Repubblica” si passa dai 14 con la parola “razzismo” nel titolo dell’anno 1985 ai ben 138 nell’anno 1992. La riflessione educativa negli anni novanta, influenzata anche dagli studi stranieri, punta esplicitamente ad una “prospettiva interculturale” pervasiva che infiltri qualsiasi ambito dell’agire sociale, della cultura e dell’insegnamento, facendo riferimento alla necessità di superare il multiculturalismo inteso come convivenza di più etnie su uno stesso territorio, senza scambi e contaminazioni. Si incomincia a riflettere che proprio nella mera difesa ( che può trasformarsi in stigmatizzazione) delle diversità c’è un pericolo e un ostacolo ai processi di integrazione. Paradossalmente, quella che negli anni settanta era stata la bandiera dei gruppi progressisti di difesa e valorizzazione delle diversità, verrà assunta dai gruppi razzisti a difesa della necessità di salvaguardare l’integrità dei cittadini residenti storici e di ogni altra etnia e cultura: questa visione sostiene che siamo tutti diversi,ma ognuno deve stare a casa propria e non ci devono essere contaminazioni. Questa posizione ha paura dei danni del meticciato culturale e umano che sarebbero la perdita dei propri valori e della propria identità. La risposta a questa nuova forma di “separazionismo” e d'integralismo viene individuata in una prospettiva interculturale che vada a confrontare le somiglianze e le differenze tra le culture ed in ogni cultura. L’intercultura non è più un ambito, un’educazione speciale da aggiungere alle altre educazioni, ma un modo di vedere gli intrecci di cui ogni cultura è il risultato. Si tratta di individuare i segni delle culture altre nella propria e i propri nelle altre. Questo può essere il vero antidoto a questi fenomeni di chiusura e di paura di perdita della propria identità, che i processi di globalizzazione mettono in atto anche nel nostro paese. Il dibattito che si è svolto e si svolge su questi temi non ha ancora quella profondità che richiederebbe la gravità , l’incidenza e l’ampiezza che questioni di questo tipo dovrebbero avere. E' ancora un dibattito specialistico e spesso “parziale”. Su questioni cruciali su cui si divide l’opinione pubblica e la stampa, le diverse tesi non vengono messe a confronto in modo che il cittadino, e gli insegnanti in primo luogo, acquisiscano la complessità dei temi implicati nelle questioni della presenza degli stranieri nelle nostre aule e dei diversi e contrastanti punti di vista con i quali gli stessi possono essere affrontati. Faccio alcuni esempi. E’ giusto pagare un mediatore culturale che collabori con la scuola per consentire ai bambini stranieri di avere un insegnamento anche nella loro lingua materna? E’ vero o no che i bambini stranieri sono di fatto discriminati? E' vero che la forte presenza di alunni stranieri rallenta il livello degli apprendimenti nella classe? Quante e quali indagini si fanno per accertare se e come l’essere bambino straniero comporta una difficoltà aggiuntiva nel proprio percorso di vita scolastica e extra-scolastica? A queste domande è difficile rispondere, poiché le risposte sono personali e non suffragate da indagini empiriche a vasto spettro che consentano di dare giudizi meno azzardati. Ci sono esempi in cui proprio la presenza in classe di alunni stranieri, motivati allo studio dall'esigenza di affermarsi e dimostrare di essere uguali se non migliori, costituisce un fattore di stimolo per gli altri che si vedono superati da chi, solo da poco, ha appreso o sta apprendendo la nostra lingua. In altri casi sono alcuni alunni stranieri che divengono leader negativi della classe. Come ha reagito a tutto ciò la scuola? Gli insegnanti hanno fatto ciò che hanno potuto e spesso sono stati lasciati da soli ad affrontare ogni emergenza.. Esaminiamo brevemente il tema della formazione e dell'aggiornamento del personale Una ricognizione completa delle esperienze di formazione ed aggiornamento del personale insegnante su questi temi è operativamente impossibile. Nessun ente pubblico e privato si è mai occupato di raccogliere e catalogare tutte le iniziative di aggiornamento e di formazione degli insegnanti su questi temi che sono avvenute negli ultimi 30 anni. Solo dopo una proposta della Commissione Nazionale Intercultura del MPI, l’Amministrazione scolastica ha dato conto, anche se in modo non completo, di numerose iniziative di formazione che sono avvenute e avvengono nelle varie scuole delle diverse regioni. L’elenco sarebbe lungo ed è bene rinviare al Cd Rom ( che e’ uno dei materiali del corso di Formazione a distanza sull’educazione Interculturale attuato dal MPI in collaborazione con Rai Educational e che utilizza anche un sito web , videocassette e trasmissioni sul canale tematico Rai Sat ) distribuito in tutte le scuole d'Italia.. .La sottolineatura che si vuole fare in questo contesto è che i corsi offerti hanno cercato di offrire agli insegnanti strumenti per accrescere le loro competenze interculturali, intese come capacità di entrare in contatto in modo educativo con i portatori di altre culture presenti nelle classi di numerose scuole. Come in molte iniziative di formazione e d’aggiornamento è mancato un processo di verifica che portasse a misurare i cambiamenti che tali iniziative dovrebbero causare nelle prassi educativa. Mentre è difficile valutare quanta prospettiva interculturale sia oggi realmente presente nelle concrete didattiche disciplinari attuate nelle nostre scuole, il sospetto che alcuni studiosi paventano che anche nelle migliori situazioni non si riesca ad andare oltre la pedagogia del cous-cous è più che fondato. Le indagini empiriche portate avanti dal CGD (Coordinamento Genitori Democratici) e da veri ricercatori confermerebbero che la distanza, il distacco, l’isolamento e la discriminazione dei bambini stranieri nelle nostre scuole starebbe aumentando, e in ogni caso aumenterebbe passando dalle scuole elementari alle scuole medie, dove alcuni indicatori ( inviti a casa propria del compagno straniero, esecuzione dei compiti in comune ecc ) diminuiscono mano a mano che si va a vanti con i gradi superiori. Segno che la difficoltà d’integrazione cresce invece che diminuire con il passare degli anni. Eppure oggi sono presenti e disponibili nella cultura e nella scuola potenti strumenti di integrazione. Pensiamo al ruolo che potrebbe avere la letteratura come chiave di accesso ad altri universi culturali. Basta una breve analisi storico-critica per accorgersi che i processi di produzione e di trasmissione della cultura sono quasi sempre frutto di contaminazioni. Pensiamo alla nascita delle lingue e delle letterature moderne dopo la fine del Sacro Romano impero e del latino come lingua imperante. Pensiamo al processo di formazione delle parole della nostra lingua, che è il più efficace documento interculturale delle nostre origini. Il mito della purezza linguistica, culturale e “razziale” è, appunto, un mito, senza nessun fondamento, ed andrebbe espulso definitivamente non solo per i danni che ha storicamente causato, ma perché storicamente e scientificamente infondato. Questo modo di leggere le nostre opere letterarie e il nostro patrimonio artistico è certamente utile per “infiltrare” una prospettiva interculturale nell'insegnamento. Con l’emigrazione degli ultimi vent’anni è apparso un fenomeno culturale e letterario nuovo: la letteratura italiana della migrazione. Con essa si intende la letteratura in lingua italiana prodotta da autori immigrati nel nostro paese e destinata ad un pubblico italiano. Questa letteratura è un altro degli strumenti di confronto e di formazione più efficaci nella didattica interculturale e andrebbe fatta una seria indagine per conoscere quanta ne entra nelle nostre scuole, ma il sospetto fondato anche qui è che poco di tutto ciò entri nel vissuto quotidiano dei nostri cittadini e dei nostri alunni. Dopo questa breve panoramica, spero non noiosa, cercherò, di trarre alcune indicazioni non straordinarie ma di buon senso: a) Un intervento interculturale efficace può avvenire nelle situazioni in cui individui e gruppi siano consapevoli e coscienti del proprio retroterra culturale etnico e linguistico, ma nello stesso tempo diano valore, apprezzino e diano fiducia agli individui che sono diversi da loro. Si deve perciò tener presente il fatto che la nostra identità personale e di gruppo influenza il modo come noi percepiamo gli altri. Se si è deboli , insicuri della propria identità , della propria storia individuale, familiare e sociale, se abbiamo paura del nostro futuro, siamo più portati a vedere nei nuovi arrivati un pericolo, una minaccia. b) Non bisognerebbe mai dimenticare che ogni individuo è unico, anche se ognuno è influenzato dal proprio retroterra linguistico, culturale, etnico. Il pericolo è che noi vediamo gli altri come definiti interamente dai loro retroterra, dalle loro origini. Le differenze andrebbero usate per accrescere gli scambi, mentre vediamo come spesso siano usate per stigmatizzare, attraverso gli stereotipi, gli stranieri. Capire la propria e le altrui culture è un processo che dura tutta la vita; la scuola e gli insegnanti devono lavorare con gli alunni e con le famiglie per costruire rapporti che siano culturalmente competenti. E ' compito delle scuole e degli insegnanti interpretare la nostra cultura e trasmetterla agli alunni stranieri e alle loro famiglie aiutando gli alunni e le famiglie degli stranieri a oltrepassare i confini delle loro culture in modo efficace, senza far perdere loro la loro identità. Questo può avvenire se acquisiamo come scuole e come insegnanti i parametri culturali essenziali, di base, delle nazionalità più diffuse nei nostri territori (per es. rumena, albanese, macedone). Senza un minimo di conoscenza di queste culture si rischia di commettere quegli errori che le cronache poi registrano. c)Una convinzione ci dovrebbe guidare: la consapevolezza che tutti gli scambi e tutti i nostri interventi accadono nel più largo contesto socio-politico che varia da famiglia a famiglia, da gruppo a gruppo. E questo contesto è influenzato dalla lingua, dalla cultura e dallo stato economico dei singoli individui. Molte delle nostre asserite (o false) differenze derivano non dai singoli individui, ma dai confini socio-politici in cui gli individui sono costretti a vivere. Obiettivo educativo fondamentale di una scuola democratica è quello di contribuire a conoscere e a modificare nel verso giusto le barriere che riguardano le strutture,l'organizzazione, il funzionamento della società e che artificialmente ci separano gli uni dagli altri.