e-book

Dare voce a chi non ne ha

giovedì 23 novembre 2006
di Vera Bianchini
Non faccio più foto, ormai si è cristallizzata tutta la mia vita negli attimi più belli, storicizzata in immagini racchiuse poi negli album che non sfoglio più. Mi basta sapere che ci sono quei punti fermi fissati come documenti a testimoniare, forse solo per me stessa, un’esistenza che ha conosciuto anche le gioie. Ma la foto più bella è questa che ho incorniciato in un allegro quadretto con Gatto Silvestro. Attaccavo una tua giacca nell’armadio quando mi hai afferrato alle spalle e mi hai attirata. Volevi le coccole. Ho sentito tutta la tua dolcezza e i tuoi occhi mi hanno detto più di quanto potrebbe la tua voce. Sono stati momenti tenerissimi, quelli che aspetti ogni giorno e che non ti avevo ancora dato, perché io, spesso, mamma distratta dai voli della mia mente, o afferrata dalle piccole, imprescindibili beghe del quotidiano, mi dimentico che soffermarmi un poco con te è importante, estremamente importante. Per me. E’ importante per me. La tua foto mi guarda dalla parete. Siamo sul traghetto per l’Isola del Giglio. Volevo un posto bellissimo dove stare noi tre, e tu, con i tuoi occhi ridenti mi mostravi che avevi capito. Che occhi in quella foto! Ma gli occhi tuoi sono ancora bellissimi. Sono l’unica cosa che è rimasta di quei tempi, e sono veicolo dell’anima tua, stupenda, che sta nascosta lì, dietro ad una roccia senza parole. Sono l’unica strada che mi consenti per raggiungerti per pochi rari istanti, momenti folgoranti d’incontro, attimi sospesi in un mondo irreale dove ci siamo persi, come in un bosco di nebbia. Eri felice, il mio braccio ti circondava a sorreggerti sul sedile troppo grande per i tuoi piccoli anni. Hai un cappellino azzurro orlato di rosso. Sei paffutello. Eri nel momento della tua piena forma e fuggivamo verso una vacanza tutta nostra, di noi tre: babbo, mamma, figlio. Volevo un paradiso. Solo lì poteva soffermarsi la nostra felicità. Che occhi i tuoi occhi senza paura del mare! Solo risa felici tuffate nell’azzurro come quei piccoli pesci volanti che ogni tanto si alzavano in volo. Che occhi i tuoi occhi ridenti, ridenti, ridenti… Che occhi i tuoi occhi! La paura del mare venne poi sulla spiaggia all’improvviso. Erano i granelli di sabbia che ti si appiccicavano al viso per la crema che io ti spalmavo? Il mare lo avevi visto come un’entità placida sulla quale poter scivolare, rimanendone illesi, non come qualcosa dove entrare: quell’immenso animale liquido che poteva inghiottire. Le tue grida, la tua rabbia, la mia rabbia. La separazione, la rottura. Ebbi il coraggio di lasciarti per immergermi in quel mare, ma poi tornai e non ti lasciai finché non sentii la tua tempesta placarsi tra le mie braccia. “Mai più, amore mio, avremo tempeste. Mai più.” Forse quel tuo pianto era l’angoscia che io scoprissi il tuo mondo di “diverso”. Ma eri un “diverso più”. Ti avevo sempre sentito come diverso, e, nel tornare a casa dal lavoro, volavo, perché sapevo che mi aspettavano il tuo sorriso e il tuo abbraccio dentro il quale mi perdevo. Era il mio mare, eri tu il mio mare. Eri diverso perché a tre anni leggevi nel tuo mondo fatto solo di nonne, di mamma, di babbo, di fiabe. “Non avremo mai tempeste, amore mio, non le avremo mai!” Mai più tempeste mai più. E calmo ora è il nostro mare. Nasconde tutto nel suo grembo, dietro la tua fronte, nei tuoi occhi rassegnati che vedono tra me e te il bosco di nebbia che io, a volte, attraverso. La mamma a volte osa e riesce, chissà da quale fata aiutata, a raggiungere quel luogo dove sosti da solo. Si aggira tra gli alberi sgomenta, tendendo le braccia per orientarsi. Entra nel tuo regno, ti cerca, sa che ci sei ma non ti vede. E tu la vedi ma non la chiami. Non hai mezzi, non hai voce. Penso alla tua solitudine rassegnata. Penso alle persone che hai amato e che hai visto scomparire dalla tua vita. Penso al tuo sgomento nel contare i minuti, le ore, i giorni per veder ricomparire un volto e non rivederlo mai più. Penso all’angoscia del non sapere perché a volte qualcuno scompare nel nulla. Vorrei salvarti dal dolore e darti una vita felice. Una frase banale ma che nel tuo caso diventa di vitale importanza. Una vita felice vuol dire solo che tu stia bene e che sorrida. Ma noi “normali” siamo troppo distratti e tu ti sei rassegnato alla nostra dura scorza che ci avvolge. Quando ti cacciai da quel mondo di fiaba, in cui le nostre anime erano fuse, per proiettarti nella vita, non vidi il dolore che ti avvolse, lentamente, come una maschera di ferro. Passatemi, vi prego quest’immagine trita ma calzante. Non mi viene altro di più vero. Una maschera di ferro che abbiamo noi, chiusi dentro il nostro quotidiano, mentre lui, indifeso, ci guarda silenzioso e si ritrae. E allora chi sono quelli che s’incontrano nella casa, che ogni tanto si abbracciano? Sono due corpi ambulanti, involucri di anime che stanno altrove. Ma riconosco dal tuo sguardo il momento in cui ti sono vicina, quando mi leggi il pensiero, quando afferri il mio dolore che si concretizza in ricordi. E’ un incontro fugace e muto, ma un incontro, anche se di brevi momenti. Sei nascosto lì, dietro. Tu mi vedi e sorridi. E a me deve bastare solo questa certezza. Una mamma di un ragazzo ar-ti-stico