e-book

Madres de Plaza de Mayo. Brani da 'Le Pazze' di Daniela Padoan

martedì 18 aprile 2006
di Daniela Padoan
In questo e-book Akebia, in collaborazione con la Biblioteca Comunale “Luigi Fumi”, in occasione del Premio Internazionale per i Diritti Umani “Città di Orvieto” che sarà assegnato giovedì 27 aprile 2006 alle Madri di Plaza de Mayo, presenta ai lettori di orvietonews.it un estratto della Premessa e alcuni stralci a nostro avviso particolarmente significativi tratti dal libro di Daniela Padoan: ”Le Pazze - Un incontro con le madri di Plaza de Mayo” Bompiani, maggio 2005 A chi volesse conservare il documento consigliamo di stampare l'e-book in formato PDF. Ricordiamo che la consegna del Premio alle Madres avverrà la mattina di giovedì 27 aprile 2006 nella Sala dei Quattrocento di Palazzo dei Congressi, mentre nel pomeriggio dello stesso giorno, alle ore 16,30 nella Sala del Governatore di Palazzo dei Sette, a cura della Biblioteca Comunale si svolgerà un incontro con Daniela Padoan e con le Madri di Plaza de Mayo Hebe de Bonafini e Celia de Prosperi. Una grande occasione di confronto assolutamente da non perdere. Daniela Padoan, che da anni è in relazione con le Madres argentine e che a buona ragione può considerarsi una testimone storica del loro singolare fenomeno, ha costruito questo libro, tutto estremamente bello e denso di significati, come un insieme di testimonianze cucite insieme da brevi domande, osservazioni e notazioni storiche. Sono cinque le madri che parlano in questo libro, Hebe de Bonafini, Beba Petrini, Gota Feigelmüller, Juanita Pargament e Marcela Antonia De Ledo. “Ho raccolto le loro testimonianze – afferma la Padoan nella Premessa - nel corso di incontri che si sono succeduti durante cinque anni - nei loro ripetuti viaggi in Italia e in un mio recente viaggio in Argentina - e le ho organizzate secondo una successione cronologica, scandendole con brevi indicazioni sul contesto in cui si sono svolti i fatti, basate sui riscontri che ho potuto trovare nel complesso e in parte contraddittorio materiale non ancora sistematizzato dagli storici. “Le pazze” è il risultato di un incontro, che in quanto tale non pretende di essere esaustivo; è piuttosto il racconto di quello che ho visto e che ho imparato ad amare, che mi pare contenga un'indicazione significativa di un diverso modo di concepire e praticare la politica, fondata su un agire comune che pone al centro dell'azione la responsabilità etica dell'altro. Non un racconto sulle vittime, ma un racconto sulla resistenza; la resistenza della vita sulla morte, del dar vita materno sul dar morte dei regimi." PREMESSA "Ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse un'offesa. Certo, ci mettevano dentro tutti i giovedì, e noi ritornavamo. Ci dicevano, “eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano”. Ma noi sapevamo di essere pazze d'amore, pazze dal desiderio di ritrovare i nostri figli... E poi, perché no? un po' di pazzia è importante per lottare. Abbiamo rovesciato il significato dell'insulto di quegli assassini. Non ci offendeva più che ci chiamassero pazze. Per fare quello che abbiamo fatto, quello che continuiamo a fare, dobbiamo essere un po' pazze. La follia è importante. A volte sono proprio i pazzi, insieme ai bambini, quelli che dicono la verità." Sono le parole di Hebe de Bonafini, presidente delle Madri argentine di Plaza de Mayo - un gruppo di donne, semplici casalinghe abituate ad assistere all'attività dei figli senza porsi troppe domande, cresciute nel rispetto delle autorità costituite - che, dopo il golpe militare del 24 marzo 1976, ebbero il coraggio di sfidare la dittatura e conquistare la piazza, decise a ritrovare i figli scomparsi. Solo in seguito seppero che i militari avevano sequestrato e ucciso trentamila oppositori politici, ragazzi e ragazze torturati nei campi di concentramento clandestini disseminati in centinaia di luoghi insospettabili nell'intero paese, gettati in mare con i 'voli della morte'. All'inizio si erano rivolte ai giudici, ai commissari, ai parroci, agli avvocati, agli esponenti politici, per scoprire di essere circondate da un muro di complicità, paura e indifferenza. Furono le porte che si videro chiuse in faccia, o aperte con subdola condiscendenza per carpire ulteriori informazioni, a dar loro la misura del potere che le soverchiava e a spingerle in quella Plaza de Mayo che avrebbe dato loro il nome, a dar vita, di fronte al palazzo presidenziale, alla storica marcia che continuano da ventotto anni, ogni giovedì. Mentre, secondo il pervasivo indottrinamento golpista per cui la nazione si trovava davanti al compito di liberarsi dei 'sovversivi', le vittime venivano trasformate in colpevoli agli occhi della stessa società, le Madri di Plaza de Mayo erano segnate a dito come madri di terroristi. Proprio l'impossibilità del racconto, della manifestazione del dolore e della rabbia, il voltar loro le spalle dei vicini e spesso degli stessi parenti, le unì in un collettivo che, man mano che il mondo si squadernava facendosi incomprensibile e ostile, diventò la loro ragione di vita. Forti solo del fazzoletto bianco che si annodavano sotto il mento, delle fotografie dei figli appese sul petto, seppero inventare varchi con il proprio stesso corpo per far sapere al mondo quello che accadeva sotto una dittatura che voleva invece mostrarsi, ben diversamente da quella degli stadi cileni di Pinochet, capace di una transizione alla democrazia. Le Madri - che non si lasciarono intimidire neppure quando il regime sequestrò e uccise le tre donne che avevano dato vita al gruppo - continuarono a chiedere giustizia anche dopo la caduta del regime, mentre i governi costituzionali, pur di chiudere sbrigativamente i conti con la 'guerra sporca' e i suoi responsabili, promulgavano leggi assolutorie e indulti, e offrivano risarcimenti economici sempre più cospicui alle famiglie per indurle a dichiarare morti i desaparecidos. Rifiutando una pacificazione che eludeva le responsabilità dei genocidi e affermando che la vita non si paga con il denaro ma con la giustizia, rinunciarono al lutto. Madri non più dei singoli figli, ma simbolicamente di tutti i trentamila scomparsi, fecero della maternità una forza capace di tenerli in vita per sempre, mettendo in scacco gli assassini e i torturatori ancora comodamente annidati nelle nicchie del potere. Dopo aver vissuto un'esperienza abissale che le ha tenute per quasi trent'anni in presenza della morte senza accettarla, le Madri di Plaza de Mayo hanno fatto del dar vita un potere irrevocabile. Ma chi erano, le Madri, prima che la storia si abbattesse su di loro, trasformandole radicalmente?... "Quando i miei figli andavano a scuola” racconta Hebe "misero in scena l’ “Antigone”. Assistevo a tutte le repliche, perché mi piaceva tanto vederli recitare; sapevo a memoria quel testo, ma mai mi resi conto di ciò che voleva dire. Adesso sì. Adesso so chi è Antigone”. Il corpo che il tiranno non voleva seppellito nella cerchia delle mura sarebbe diventato quello di tutti i trentamila desaparecidos. Ora che il mondo ha imparato a conoscerle e che il nuovo presidente argentino Kirchner, nel suo primo discorso davanti alle Nazioni Unite, si è dichiarato "figlio delle Madri di Plaza de Mayo", continuano a trovarsi nella loro Casa nel centro di Buenos Aires, dove tutti i giorni tengono riunioni, cucinano, parlano dei nipoti e degli acciacchi, ricevono personaggi pubblici - dal presidente venezuelano Chávez a Bono degli U2, che ha dedicato loro la canzone “Mothers of disappeared”, da Danielle Mitterand a José Saramago, che le ha candidate per il premio Nobel per la pace - ma soprattutto accolgono giovani che vengono da tutte le parti del mondo ad ascoltare dalla loro viva voce il racconto di una traiettoria inaudita. Da lì guardano come nuovi figli i ragazzi e le ragazze che frequentano i corsi tenuti gratuitamente da docenti argentini e latinoamericani nell'Università popolare delle Madri di Plaza de Mayo, aperta cinque anni fa e voluta come un lascito di vita e di libertà. "Se noi donne ormai vecchie, tutte tra i settanta e i novant'anni" dice Beba Petrini "possiamo venire qui ogni giorno, magari qualcuna un po' malferma, col bastone – e se dobbiamo andare a una marcia, ci andiamo, se dobbiamo uscire di notte a fare un discorso, lo facciamo – allora tutto si può fare. Quella che adesso si occupa della rassegna stampa è una madre di novantadue anni. Stiamo mettendo molte cose su internet perché, è chiaro, dobbiamo stare al passo con i tempi, però tutto questo è inamovibile, resta, e dimostra che quando uno fa quello che vuole e quello in cui crede, e quando sogna, nonostante possa avere molti anni e avere sofferto molto, be', allora... sii felice, puoi, cammina e fai. Questo siamo noi Madri." CI CHIAMAVANO LE PAZZE “Il coraggio per gli altri” Ci volle molto coraggio per continuare a far sentire la propria voce, in quegli anni. Beba Certo, fu necessario avere un grande coraggio, ma il coraggio ce lo diedero i nostri figli. Nel paese molti furono paralizzati dalla paura, altri non mossero un dito perché erano fascisti, e altri ancora furono semplicemente indifferenti. Fino a quando toccò a loro; quando toccò a loro, allora smisero di essere indifferenti. Il vostro coraggio, però, riuscì a dare coraggio anche ad altri. Hebe Demmo coraggio anche agli altri, è vero: il coraggio di uscire nello spazio pubblico. Ma devo dirti che il nostro non era coraggio... credo di no; piuttosto penso che fosse decisione, chiarezza su quello che volevamo. Il coraggio è un'altra cosa. Per noi è essenziale agire, non solo pensare; siamo convinte di Quello che facciamo e di quello che vogliamo, ed è questo a darci la forza. Non è stato facile, questo è sicuro. Il mondiale, che per tanta gente era stato una festa, per noi aveva rappresentato il terrore. Ci misero in galera più spesso, ci aizzarono contro i cani, e noi, per difenderci, imparammo a usare un giornale arrotolato. Cercavano di disperderci con i gas lacrimogeni, e noi imparammo a portare con noi una bottiglietta d’acqua e del bicarbonato. Ci sono tante cose che bisogna imparare, quando si lotta. E’ stata la piazza a insegnarcele. Ogni giovedì arrestavano qualcuna di noi, e così decidemmo che avrebbero dovuto arrestarci tutte. Salivamo a forza sulle auto della polizia, oppure seguivamo i cellulari dove avevano caricato le nostre compagne e ci presentavamo al commissariato. Entravamo e ognuna di noi diceva, “signor commissario, voglio essere arrestata anch'io”. Ci mostravamo ingenue, non facevamo azioni di protesta palesi, ma gli creavamo un tale scompiglio che quelli non sapevano più che pesci pigliare e alla fine ci rilasciavano. Ma non tutte insieme; una alla volta, e magari nel cuore della notte, o all'alba. C'erano madri talmente coraggiose da piazzarsi fuori dal commissariato e non andarsene fino a quando non avevano rilasciato l'ultima. A quei tempi non avevamo un avvocato, e di certo non avevamo il sostegno dei politici. Eravamo completamente sole. Però una cosa sapevamo: che non volevamo farci intimidire. Loro ci arrestavano, e noi il giovedì successivo eravamo di nuovo in piazza. Ci arrestavano, e tornavamo, e loro dicevano, “eccole lì, le pazze”. Credevano di insidiarci, ma per noi non era un insulto. Qualcuno ci chiama così ancora adesso, "le vecchie pazze di Plaza de Mayo". Perché no? Lo dico sempre, ci vuole un po' di pazzia per affrontare quello che abbiamo affrontato. Noi avevamo la nostra pazzia, e i militari il loro ordine, che cercavano disperatamente di mantenere. A disarmarli, era proprio il nostro modo di scardinare quello che per loro era normale. Ci portavano dentro e procedevano con i loro interrogatori, come gli avevano insegnato. “Che idea ha di suo figlio?” mi domandò una volta un poliziotto. “Molto buona”, risposi io. E quello scriveva tutto. Scrisse, “molto buona", e poi mi fece firmare. C'è da ridere, no? Queste cose, facevamo. Avevamo molti anni meno, avevamo quarantacinque, cinquant'anni. Beba In quel periodo ci fermavamo in piazza solo per qualche minuto, il tempo di affermare che non l'avremmo persa. Entravamo in tre o quattro, facevamo un rapido giro e poi ci ritiravamo di corsa, ma per noi era una necessità assoluta, costasse quel che costasse. Dovevamo trovarci ogni giovedì, per sapere se c'erano delle novità, per parlare tra noi, ma soprattutto per mantener fede all'impegno che avevamo preso con i nostri figli: essere lì, in Plaza de Mayo, a dire al mondo e alla società argentina, così indaffarata a ignorare quello che succedeva, che non era tutto così normale, come volevano farci credere; che c'era sempre più gente torturata, che c'erano sempre più desaparecidos. Ci rincorrevano, ci caricavano, ci portavano via sui cellulari, ma quando ci ritrovavamo tutte insieme con le nostre madri arrestate, sapevamo di farli impazzire. Ci sedevamo sul pavimento del commissariato e cominciavamo a pregare ma, anziché recitare il rosario, dicevamo, “oh, dio mio, fa' che questi assassini ci ridiano i figli”. La forma della preghiera li spiazzava, perché non potevano impedire a una madre di pregare. Era una cosa che li mandava in bestia. Più ci colpivano, più ci perseguitavano, e più noi inventavamo maniere creative per affrontarli. Ma sempre unite. È stato questo a darci la forza: agire collettivamente, mai in modo individuale. Ci siamo rese conto fin dall’inizio che da sole non avremmo mai raggiunto nessun risultato. Loro cercavano di rompere il collettivo, di dividerci, e noi cercavamo il modo di unirci ancora di più. “E’ stata la piazza a darci il nome” Hebe Dal momento che era diventato impossibile andare in piazza ogni giovedì, rischiavamo di perdere i contatti tra di noi, perché se una madre mancava a un appuntamento non sapeva dove ritrovarci il giovedì successivo. Il 14 maggio 1979, andammo da un notaio per formalizzare la nascita dell'associazione. Non ci fu neanche bisogno di decidere il nome: ce lo aveva già dato la piazza. Fu un periodo duro, in cui non saremmo riuscite ad andare avanti senza la solidarietà che ci venne dall'estero. Durante il mundialito andavamo tutti i giorni a parlare con i rappresentanti dell'Osa che, se non altro, erano gli unici a ricevere tutte le centocinquanta madri e non solo una delegazione. Abbiamo sofferto l'offesa di restare in attesa per ore per poter parlare con loro, mentre gli argentini "diritti e umani" gridavano e cantavano di gioia, prendendoci in giro. Ricevemmo però un grande appoggio da Parigi, dove aveva cominciato a funzionare il “Solma, Solidarité avec les Mères de la Place de Ma”i, formato da donne che andavano a manifestare davanti all'ambasciata per appoggiarci e per far vedere che non eravamo sole. E poi ci furono le donne olandesi, alle quali dobbiamo grande riconoscenza, perché ci permisero di comprare la nostra prima sede, così che non dovemmo più trovarci in strada, col rischio ogni volta di farci arrestare. Noi Madri non abbiamo avuto mai nulla dagli stati, ma sempre dai popoli. Oggi abbiamo venti gruppi di appoggio in tutto il mondo, che organizzano i nostri viaggi, le nostre interviste, i nostri incontri, e che sono quelli che ci danno la forza per andare avanti. Ci siamo ancora perché in ogni paese ci sono migliaia di persone che ci aiutano. Tutto quello che abbiamo fatto, non lo abbiamo fatto da sole; siamo state accompagnate nella nostra lotta da tutta quella gente che, avendo sofferto prima di noi guerre, torture e persecuzioni, aveva il cuore e l'intelligenza per capire ciò che ci stava accadendo, e ciò di cui avevamo bisogno. Ancora oggi, noi Madri ci sosteniamo con la solidarietà. In tutti i sensi: politicamente, economicamente, eticamente. “Le invenzioni simboliche” Attraverso l'invenzione del fazzoletto, della marcia, del giovedì in piazza, le Madri hanno trovato una figura simbolica che le ha rese riconoscibili nel mondo. Non si tratta solo di un'icona perché le loro invenzioni hanno potenti effetti sulla realtà. Usando le armi di una terribile intransigenza, ma anche di un'inarrivabile ironia, sono riuscite a spiazzare il potere, a farsi gioco dei suoi simboli, a smascherarlo nelle sue pretese di razionalità. Hanno attinto a una forza inferiore che si è fatta collettiva, sapendo che alla nuda violenza potevano rispondere solo con una grande signoria. Hanno gridato “fuoco!” a chi gli puntava contro le armi; hanno chiesto “arrestateci tutte” per poter affermare che “non erano loro che ci arrestavano, ma noi che ci consegnavamo”. Un gioco di continui rovesciamenti simbolici, che riesce a mettere in crisi quelle verità autoreferenti, quelle costruzioni discorsive, quegli automatismi logici che permetterebbero al potere di calpestarle, di renderle inoffensive, o addirittura di toglierle di mezzo. Le Madri non concedono ai loro nemici di procedere con la logica spietata che rende anonimi gli esseri umani, rinchiudendoli in quelle categorie - 'terroristi', 'sovversivi', 'nemico interno', e via dicendo - che poi ne rendono facile e ovvia l'eliminazione. Sanno d'istinto i gangli vitali della società: scrivono sulle banconote, e i loro messaggi girano con la rapidità con cui gira quel tramite universale che è il denaro. Per insultare i militari, per accusare i poliziotti di tortura e omicidio - nel cuore stesso del loro dominio, nelle carceri, nei commissariati - usano la cadenza dell'Ave Maria e del Padre nostro, pronunciano cioè quelle parole che i persecutori sono stati addestrati a riconoscere come intoccabili e in nome delle quali perpetrano i loro omicidi. Le armi delle Madri diventano la piazza e lo spiazzamento. L’INVENZIONE DEL MATERNO I padri e i fratelli sono rimasti sostanzialmente muti, chiusi in un dolore che non riusciva a esprimersi nelle forme tradizionali della politica, mentre il vostro dolore ha trovato altre forme per diventare politico. Hebe II problema è che tra gli uomini progressisti c'erano sempre molte discussioni legate all'appartenenza: chi era comunista, chi trotzkista, chi marxista, chi peronista. Era una cosa terribile, perché non venivano mai a capo di nulla. Le divisioni tra partiti politici venivano sempre prima. Invece noi madri non avevamo i partiti: avevamo i figli scomparsi. Tra voi non c'erano problemi di appartenenza politica? No, perché abbiamo sempre detto che, prima della nostra appartenenza, religione o credo, c'erano i figli. Poi, quando venne la democrazia, ma sarebbe meglio dire il governo costituzionale, con Alfonsín, allora sì, anche tra noi ci sono stati dei problemi di partito, perché ci furono delle madri legate al Partito radicale che dissero, “adesso c'è la democrazia, le madri nella piazza danno una brutta immagine”. Per questo ci fu la separazione con Linea Fundadora; noi restammo e loro se ne andarono. Noi Madri non ci adattiamo alle questioni interne dei partiti, alle loro regole di discussione, ai loro modi di prendere le decisioni. Sentivamo che dovevamo stare fuori, che dovevamo stare nella piazza, che dovevamo far vivere la marcia, che dovevamo denunciare, che dovevamo gridare che abbiamo i figli scomparsi. Gli uomini no. Forse fu per i condizionamenti che avevano subito molto più di noi. C’era una frase del generale Perón che diceva "dalla casa al lavoro, dal lavoro alla casa", con cui si invitava la gente a non fare nulla, a chiudersi nelle proprie quattro mura. La chiesa diceva, “pregate”; i politici dicevano, “non succede nulla e comunque ci pensiamo noi”. Era un sistema molto repressivo, in tutti i sensi, un sistema che, come prima cosa, voleva tapparti la bocca. Invece noi Madri andammo in strada e inventavamo mille modi perché il silenzio imposto riguardo alla scomparsa, alla tortura, agli assassini e alla morte si tramutasse in un grido. Beba II gruppo che tentarono di formare i padri non durò a lungo, e non solo perché cominciarono a discutere di partiti, ma perché non avevano la pazienza delle madri, la pazienza di fare piccoli passi. A noi non importava che ci umiliassero, che ci insultassero, che ci urlassero contro; loro invece avevano un altro concetto. E poi credo che alcuni di loro non capirono i propri figli quanto li capirono le madri. Ci fu anche chi non era d'accordo con il modo di pensare e di agire dei propri figli... Insomma. credo che le madri sono qui, nella pancia; le madri sono quelle che partoriscono, e i figli sono dentro di noi. E poi non dimentichiamo che bisognava pur portare avanti il resto della famiglia, bisognava che qualcuno rimanesse in casa, e noi di certo non ci rimanevamo. Immagino che si sia trattato di una vera e propria rivoluzione. Uscire dalla famiglia, andare in strada, andare in piazza e cambiare tutto un sistema di vita fu rivoluzionario, senza dubbio. Credo che lì cominciò una rivoluzione dentro noi stesse, una rivoluzione che poi avremmo fatto tutti i giorni, perché quello che abbiamo imparato è che la rivoluzione non è un episodio che finisce, ma si fa tutti i giorni, giorno dopo giorno. E quando raggiungi lo scopo, bisogna mantenerlo, e questo è ancora più difficile e in un certo senso più rivoluzionario. Anche il fatto che i nostri mariti iniziassero a stare in casa fu rivoluzionario. Rimanere in casa a preparare la cena e ad accudire i figli fu rivoluzionario da parte loro, e fu parte della solidarietà e dell'appoggio che gli uomini dettero alla lotta. Poco per volta, avete smesso di chiedere dove fossero i figli, e avete cominciato a chiedervi chi fossero; come è accaduto questo passaggio? Juanita Fu molto importante il momento in cui la gente cominciò a capire chi erano i nostri figli e perché li avevano portati via. Il cambiamento che volevano, cominciammo a volerlo anche noi; gli ideali di giustizia, di onestà, di fratellanza che avevano fatto crescere, cominciarono a essere i nostri ideali. Se le idee per cui erano morti avessero continuato a vivere dentro di noi, ci dicemmo, non sarebbero riusciti a portarceli via, non sarebbero riusciti a farli morire, perché noi li avremmo tenuti in vita. Non volevamo dargliela vinta. Non volevamo che potessero dire di averli uccisi davvero. Hebe Quello che facemmo, e che ci costò molta fatica, fu rivendicare i nostri figli per quello che erano, per quello che avevano voluto essere: i nostri figli non erano terroristi, ma rivoluzionari. Questa è una bella parola, che viene troppo spesso infangata. Rivoluzionario è chi vede l'ingiustizia e non si adatta a subirla; rivoluzionario è chi ha un sogno e non accetta di vivere a metà, nella paura, nell'ubbidienza di fronte al potere che uccide. Fu così che, da madri di terroristi, come ci chiamavano, ci proclamammo madri di rivoluzionari, mettendo in queste parole tutto l'amore, tutto il rispetto che avevamo per loro, per le loro belle vite; perché un rivoluzionario non muore mai, continua a vivere nei suoi sogni, nei suoi progetti di un mondo più libero, più solidale. I miei figli mi hanno insegnato a dividere tutto, a non essere confo rmista, ad amare la vita in ogni persona. Furono loro a dirmi che non bisogna accettare tutto in silenzio, che non bisogna credere a tutto e farsi comandare illudendosi di scegliere; che il corso della vita si può cambiare, che si può avere il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Mi emozionava tanto vederli essere così generosi, e la sola cosa che desideravo, anche se non c'erano più, era che potessero seguitare a far crescere ancora e ancora quella grande volontà di cambiamento che avevano nel cuore. A un certo punto avete smesso di portare in piazza le fotografie dei vostri figli e avete tolto i loro nomi dai fazzoletti. Perché? Juanita Abbiamo deciso che ciascuna di noi non avrebbe più lottato per uno, ma per tutti i trentamila desaparecidos, perché tutta quella gioventù se l'erano presa per lo stesso motivo: perché voleva cambiare le cose. Per questo non portiamo più la fotografia di nostro figlio; sentiamo che sarebbe un egoismo, tutti avevano le stesse qualità, erano intelligenti, capaci e persino, arrivo a dire, il meglio di ogni famiglia. Hebe Sopportare la scomparsa di un figlio non si può spiegare, non me lo spiego nemmeno io; noi Madri non ce lo spieghiamo ancora. Però, quando abbiamo cominciato a vedere che c'erano madri che non venivano in piazza e che cercavano persino di ignorare la scomparsa, abbiamo capito che non potevamo lasciare soli tutti quei ragazzi, quelle ragazze che non avevano nessuno a lottare per loro. Abbiamo capito che dovevamo farci madri di tutti. È stato un passaggio lungo, che abbiamo chiamato socializzazione della maternità, anche se le parole, come sempre, sono venute dopo; prima è venuto il sentimento che ci ha spinte. Così man mano, lentamente, non tutte allo stesso tempo, siamo diventate madri dei trentamila desaparecidos. Quei figli non li hanno portati via perché erano medici, o avvocati o operai o studenti: li hanno portati via perché erano rivoluzionari; per questo noi siamo madri di tutti, li rivendichiamo tutti, li amiamo tutti, li difendiamo tutti. “Un apparente paradosso” Hebe In realtà quello che è successo è che siamo state partorite dai nostri figli, perché è stato per la loro scomparsa che sono nate le Madri di Plaza de Mayo. Per farci mettere al mondo, per farci partorire da loro, abbiamo dovuto capire chi fossero, e così la loro lotta ha cominciato a essere la nostra. Non tutte le madri sono cresciute politicamente nello stesso tempo, ma tutto ciò che ci è accaduto è stato come un miracolo. E’ stato un miracolo trovare in altri figli i nostri stessi figli, ed è stato un miracolo dare loro ancora dieci, venti, e adesso quasi trent'anni di vita. Perché non solo loro ci hanno partorite, ma noi li teniamo dentro di noi per sempre, siamo sempre incinta dei nostri figli. Non è un paradosso? No, non è un paradosso. Loro sono scomparsi, e siamo venute al mondo noi Madri. Nascemmo a partire dalla loro scomparsa, e per questo siamo incinta di loro: perché li capiamo, li ascoltiamo, li custodiamo dentro di noi. E questa è la gravidanza più bella, piena di allegria, di speranza, di sogni. Noi Madri non diamo per morti i nostri figli, crediamo che vivano in ogni persona che lotta, che lavora, che si impegna per gli altri, ed è un sentimento molto intimo, molto personale. Io non penso mai a mio figlio torturato, morto; lo penso sempre nei momenti più allegri, nei ricordi che mi porto dentro, che conosco solo io, perché sono cose private, così come la gravidanza è una cosa privata. A ogni cosa nuova che facciamo noi Madri, sento che stanno nascendo di nuovo: con la stamperia, con il centro culturale, con il caffè letterario. Qualsiasi cosa mettiamo al mondo, sento che tornano a nascere, che tornano alla vita. Ogni volta sento che li stiamo portando alla vita e che loro tornano a entrare in noi. Sembra un discorso che facevano le mistiche, sulla possessione del divino. Non lo so, quello che ti so dire è che è una cosa molto bella, molto gratificante... Sarò anche pazza, ma io sento così, è una cosa che sento vera; soprattutto, la sento vera… Noi abbiamo cominciato a vedere… a studiare, ad apprendere, e li abbiamo seguiti nel loro cammino, senza essercelo proposto consapevolmente. La gente pensa che abbiamo letto i testi che leggevano loro. No no, non abbiamo letto “II capitale”. Abbiamo letto altre cose, più semplici, e forse leggiamo nel libro della vita, e apprendiamo per la strada, dalla gente, dai nostri compagni; abbiamo interpretato la lotta dei nostri figli dalle cose piccole, non dalle cose fìlosofiche. Credo che quello che ci è successo sia unico al mondo: essere compagne nella lotta dei propri figli quando loro non ci sono più. E difficile, però è molto bello... Quando hanno portato via i miei figli, mi sono sentita vecchia di mille anni, ma adesso non è più così, sento di avere vent'anni in meno di quanti ne avevo allora, e non so perché succeda, ma credo che sia la lezione del nostro cammino. C'è sempre un porre la vita al centro di tutto. Sì, noi non abbiamo nulla a che fare con la morte. La vita è il significato profondo di tutto quello che facciamo. Tutto quello che c'è di creativo ha a che fare con la vita, non con la morte. E combattere per la vita è rivoluzionario, perché il sistema ti chiede il contrario: vuole che ti adatti al finale, vuole che ti adatti alla morte, vuole che tutto termini nei musei, nei monumenti. Noi siamo vecchie e molte di noi sono già morte, ma sappiamo che c'è ancora molto per cui lottare; andranno avanti altri, perché si comincia ogni giorno, e l'importante è lasciare una traccia di vita. La capacità materna di dare vita è diventata per voi, nella sua essenza, un atto disfida contro il potere? Juanita Chiaro, rivoluzione è madre. Noialtre siamo uscite dalla cucina per imparare la politica, e, anche se ci mancavano i figli, abbiamo imparato quello che proprio loro avevano desiderato, e lo abbiamo fatto nostro; abbiamo imparato che ci sono maniere di vivere diversamente, e che essere madri di tutti i desaparecidos significa abbracciare tutti, non solo loro, ma anche gli uomini e le donne che lottano, e quelli che non hanno la forza di far sentire la loro voce, perché sono troppo emarginati. Quando una donna rimane incinta, nel suo corpo comincia a battere un altro cuore e i sentimenti diventano di condivisione, i valori cambiano; noi abbiamo portato questo sentimento nel nostro modo di vedere il mondo e adesso tutti sono nostri figli, i piqueteros che bloccano le strade per avere un lavoro, i bambini costretti a prostituirsi, gli analfabeti, i popoli sotto le bombe; li sentiamo tutti come figli nostri, e sentiamo che abbiamo la responsabilità di fare qualcosa per loro. Guarda, io ho novant'anni, ma posso dirti che attraverso tutto questo tempo che è trascorso mi si sono persino rinnovate le forze, e sai perché? perché abbiamo continuato a dare vita ai nostri figli. E così, siccome non sono morti loro, non siamo morte neppure noi; la volontà di lotta che abbiamo è più forte anche della morte fisica. Quella arriverà, ma non ci fa paura. Tutte noi che continuiamo, continuiamo a dare ragione a loro e, anche se non lo vedremo, abbiamo fiducia nel futuro. Non abbiamo la forza di cambiare il mondo, ma abbiamo la forza di dare l'esempio, che è l'esempio che ci hanno dato loro: di onestà, di fermezza, di convinzione che idee e pensieri possano essere messi in pratica, perché non è vero che il sistema dominante è unico e invincibile. Hebe Tu dici spesso l’altro sono io”. Quando dico che l’altro sono io, vuol dire che sono le prostitute perseguitate, che sono i venditori ambulanti, che sono i lavoratori delle fabbriche occupate in autogestione, che sono i Senza terra del Brasile, che sono gli iracheni sotto le bombe… E’ un modo singolare di intendere la politica. Credo che la politica vada cambiata. Siccome va male, bisogna creare un nuovo modo di fare politica, legato alla responsabilità che ti chiama in causa in prima persona; e non bisogna solo intenderlo, questo modo, ma anche maneggiarlo, metterlo in atto; quando smetti di credere che la politica sia votare ogni quattro anni, che la politica siano i deputati, i senatori o il Congresso, allora ti accorgi che la politica è tutti i giorni da tutte le parti. Bisogna provare, senza paura, perché quando si inventano cose, non si sa come andranno. Gli inventori provano. Bene, noi proviamo. Il sentimento politico della maternità che mettete al centro del vostro agire è legato all'esperienza biologica dell'avere figli o può parlare a tutti; alle donne che non hanno figli, e anche agli uomini? Noi Madri diciamo che è necessario valorizzare il sentire materno, e questo lo possono fare tutti, perché significa vedere un bambino sotto le bombe e pensare che è tuo figlio, vedere un prigioniero che muore in carcere, e pensare che è tuo figlio. Vuol dire non essere indifferenti. E vuol dire fare tutto con cura, le piccole cose come le grandi. Sentire maternamente, per me, significa prendersi cura di tutto con lo stesso amore, perché se fai un risotto, deve venire bene, se organizzi una marcia, deve venire bene: sono tutte cose che fai per gli altri, e sono importanti allo stesso modo. “Ricomparsa in vita” Quando nacque la parola “Aparición con vida” che avete messo sui fazzoletti al posto dei nomi dei figli? Hebe Fu nel dicembre 1980, quando andammo in Svezia per accompagnare Adolfo Pérez Esquiveil, al quale era stato conferito il premio Nobel per la pace. Durante la cerimonia fummo in prima fila ad applaudirlo, perché era un riconoscimento mondiale e una condanna del regime. Dopo la consegna del Nobel, si tenne una riunione in cui Esquivel disse che i nostri figli erano tutti morti. Noi trasecolammo, “come, tutti morti?” Non potevamo accettare che un premio Nobel dicesse che erano tutti morti. Così, con il gruppo di solidarietà svedese, facemmo un comunicato in cui chiedevamo “Aparición con vida”, che fu una parola d'ordine molto discussa, perché le organizzazioni per i diritti umani cominciarono a dirci che era una follia, che ormai tutti sapevano che erano morti. Io, che avevo imparato da Esther che quando si va a una riunione complicata bisogna prendere per primi la parola, andai molto presto, mi piazzai vicino al microfono e mi rivolsi, uno a uno, a tutti i partecipanti che erano al tavolo, chiedendo se volevano che i nostri figli riapparissero vivi o morti. Al politico, “vuoi che riappaiano vivi o morti?” No, vivi! Al vescovo, “vuoi che riappaiano vivi o morti?” No, vivi! Tutti dicevano vivi. Ovvio, cos'altro potevano dire? “Allora perché non possiamo chiedere riapparizione con vita?” li incalzai. Vincemmo la battaglia, lì, al loro tavolo, e organizzammo immediatamente una marcia per la vita. Non volevamo dare alla dittatura la soddisfazione di sentirci dire che i nostri figli erano morti, quando ancora nessuno ci aveva detto cosa gli avessero fatto, quando nessuno ci aveva ancora detto chi era il colpevole di quello che gli era successo. Per questo motivo abbiamo continuato a chiedere che ci restituissero i figli così come ce li avevano tolti: in vita. Era solo un'affermazione, ma densa di conseguenze, e sostenerla fu molto difficile, perché ci attaccarono da tutte le parti, come delle pazze che non volevano arrendersi all'evidenza. La parola d'ordine che ci eravamo date sembrava a tutti tanto utopistica perché nelle nostre società la cultura della morte è molto più sviluppata della cultura della vita, e la richiesta di ricomparsa in vita metteva in discussione tutto il sistema. Con la scomparsa forzata di persone, la dittatura aveva voluto negare la vita dei desaparecidos, e non solo la loro morte. “Gli eufemismi del regime” Nelle celle del sotterraneo dell'Esma, dove si torturavano i prigionieri per indurli a parlare prima di assassinarli, si trovavano due cartelli con la scritta "II silenzio è salute”. Il pensiero va subito alla perversa ironia delle frasi nei bagni e nelle camerate dei Lager nazisti, così come la famosa scritta sul portale d'ingresso di Auschwitz, “Il lavoro rende liberi". Le sale di tortura dell'ultimo piano dell’Esma si raggiungevano per un corridoio chiamato ‘Viale della fìfelicità'. Sono molti gli eufemismi usati dal regime per nascondere dietro un'espressione attenuata, talvolta ironica, qualcosa che non si vuole nominare e forse nemmeno sentir nominare. "Quando parlavate tra di voi come facevate riferimento a tutto ciò?" chiede Verbitsky a Scilingo, l’ufficiale della Marina che confessò di aver preso parte ai ‘voli della morte'. "Lo chiamavamo 'il volo'. Era normale, anche se ora sembra qualcosa di aberrante." Rendere normale l'aberrante è propriamente la funzione dell'eufemismo. "Nessuno dei carnefici ha il coraggio di nominare, di raccontare, di chiamare le cose con il loro nome. Ognuno tenta di aggirare l'ostacolo della barbarie di cui è stato parte. Il linguaggio vuol essere indiretto, impersonale. Tenta di aggirare il problema, di lasciar capire senza usare i termini appropriati. Sono parole non dette che, come i desaparecidos, vogliono essere oggetto di rimozione" scrive Claudio Tognonato nella prefazione al libro di Verbitsky (“Il volo”, ndr)… Del grande potere del linguaggio di velare e di disgelare le Madri si resero conto con chiarezza cristallina, finché la loro battaglia divenne per le parole vere, le parole-verità. Parole eminentemente politiche. “Le parole debbono essere vere” Nella vostra pratica le parole sono molto importanti. Questa cura della parola ha a che fare con la lingua maternaa? Hebe Ha a che fare con la verità, e dunque con la lingua materna, visto che la madre insegna al bambino a nominare le cose che corrispondono al vero; una mela è una mela, una pozzanghera è una pozzanghera. I dirigenti politici e la dittatura militare hanno tentato di cambiare le cose usando le parole. Ancora oggi, quando si parla della dittatura, molta gente dice il 'processo', perché proprio loro, i dittatori, non volevano che si chiamasse dittatura la dittatura; volevano che la si chiamasse 'il processo di riorganizzazione nazionale', e la gente si abituò, perché gli costava meno fatica. Le parole sono una cosa molto seria, che non deve essere usata casualmente, perché sono già politica. I militari chiamavano il sequestro 'appropriazione'; uno può appropriarsi di un libro, di un orologio, ma non di una persona; una persona la si sequestra e basta. Ma la parola 'appropriazione' implicava l'impossibilità della condanna, mentre la parola 'sequestro' includeva il reato, e dunque la condanna. Il potere ha sempre usato eufemismi. Sì, da quelli del nazismo a quelli delle guerre umanitarie. E dunque il potere va combattuto anche sul terreno delle parole. Non è solo una questione che riguarda la scelta delle parole, ma la responsabilità che ci prende davanti alle parole che si dicono. Noi abbiamo imparato dai nostri figli la verità delle parole o, per meglio dire, la forza delle parole che contengono verità, e adesso abbiamo due armi molto potenti: il fazzoletto bianco e le parole che contengono verità. Capita spesso che una Madre debba parlare in pubblico e mi dica, “non so parlare, non saprei come dire”, e io rispondo sempre, “basta che tu dica la verità. La dirai alla tua maniera, perché ci sono tante forme per dire la verità, ma sicuramente non sbaglierai mai”. E anche nelle nostre parole d'ordine, che nascono con grande travaglio, con grande consapevolezza di quello che vogliamo, c'è sempre la nostra verità, e a quella ci atteniamo: "Non un passo indietro"; "L'unica lotta che si perde è quella che si abbandona"; "Carcere ai genocidi"; "Aparición con vida”, sono per noi un impegno e una promessa. Le parole devono essere vere, e ci vuole una grande precisione nel linguaggio. Anche quando parliamo dei nostri figli, stiamo molto attente alle parole che usiamo, perché non vogliamo parlare per mostrare l'orrore, ma per tenere una dignità e un pudore che li preservi dall'essere di nuovo violati. Il modo in cui nomini le cose contiene già il tuo pensiero. La parola è un'arma e al tempo stesso un dono, deve essere precisa, e amata. È per questo che non usate mai l'espressione 'bambini di strada'? Sì. Sono nati dai nostri ventri, nelle nostre case, non sono bambini di strada. Quei bambini sono i nostri figli che mangiano nella spazzatura. Dobbiamo lottare perché non ci sia più nessuno che li chiami così. Se dici 'bambini di strada', è chiaro, ti togli la responsabilità; se sono della strada non sono tuoi. Quando sono i tuoi figli, i tuoi bambini, hai un impegno molto più grande. Dunque è politico anche il ragionamento sulle parole. Sì, le parole sono politica. LE MADRI OGGI ”Que se vayan todos!” L'Argentina, lembo d'Europa da sempre considerato raffinata fucina di letteratura e psicoanalisi, nei primi anni del nuovo millennio si è trasformata in un terzo mondo fuor di contesto, spiazzante, dove i mercatini dei quartieri più eleganti della capitale espongono preziosi servizi di porcellana, libri introvabili, argenterie e mobilio d'antiquariato messi in vendita dalla borghesia porteña che non riusciva più a far fronte alle esigenze immediate dell'esistenza. Capita a Buenos Aires di trovare un taxista che parli di Lacan, o che racconti dell'allestimento teatrale di “Aspettando Godot" fatto con i suoi studenti quando ancora insegnava filosofia; molti intellettuali hanno perso il lavoro che avevano scelto e adesso devono arrangiarsi come possono per vivere. Le strade di Buenos Aires pullulano di bambini che dormono in un cantuccio protetti da un cartone, di uomini e di donne che vagano con un carrello raccogliendo avanzi di cibo dalla spazzatura, scegliendo minuziosamente lattine, bottiglie vuote e cartoni da rivendere, per poi tornare nelle innumerevoli ‘villas miseria’ - uno stravagante ossimoro per bidonville - sorte nella cintura di Buenos Aires, ultima speranza per gli abitanti delle province che, non potendo più trovare lavoro, si illudono che la capitale possa offrir loro qualche appiglio per la sopravvivenza. Uomini e donne rimasti disoccupati dopo la chiusura delle fabbriche, costretti a barcamenarsi con i pochi pesos del ‘plan trabajar’ concesso dal governo, continuano ancora oggi a fare blocchi stradali, chiedendo un intervento istituzionale. Una sorta di esperimento in vitro sugli esiti estremi del neoliberismo in cui, forse proprio per il suo effetto di paradosso, le persone hanno saputo produrre qualcosa di nuovo e inusitato: una risposta 'dal basso', che ha modificato relazioni e pratiche di vita: assemblee di quartiere, reti di mercatini del baratto, fabbriche autogestite, piqueteros disoccupati che impiantano mense popolari e distribuiscono latte ai bambini, forme di sussistenza alternative al vuoto di potere e al completo discredito che nel 2001 ha investito le istituzioni, simboleggiato dal corale “Que se vayan todos!” (Che se ne vadano tutti! ) gridato nelle strade e nelle piazze di tutto il paese ai dirigenti politici e ai vertici aziendali e sindacali. Qualcuno, come Naomi Klein, ha parlato, forse con un eccesso di trionfalismo, di un grande laboratorio sociale e politico capace di disegnare un altro sistema possibile per il resto del mondo. Quel che è certo, è che gli ultimi quattro anni hanno chiarito la parabola iniziata con il golpe del 1976 e hanno imposto un radicale mutamento alle politiche economiche e sociali del governo, ora presieduto dal peronista Néstor Kirchner. In che modo voi Madri avete partecipato alle mobilitazioni degli ultimi anni? Hebe Abbiamo sostenuto, e sosteniamo ancora adesso, i piqueteros che hanno occupato la Zanon, la più grande azienda di ceramiche del Latinoamerica. È una fabbrica meravigliosa, computerizzata, robotizzata, e loro la fanno funzionare, la tengono ordinata, pulita, piena di fiori. Ma ci sono molte altre fabbriche in autogestione, spesso mandate avanti da donne, come la Brukman, o Grissinopolis. Ci sono supermercati autogestiti nei quali si vende ciò che viene prodotto dai disoccupati: pane, pasta, scarpe, verdura. Noi appoggiamo tutte queste iniziative, perché non vogliamo che venga data beneficenza ai bambini, ma lavoro ai genitori. Diamo loro le nostre sale per le riunioni, diamo spazio alle loro iniziative sul nostro giornale, e andiamo a sostenerli quando la polizia li reprime. L'Università popolare delle madri ha formato degli economisti che vanno ad aiutare gli operai in occupazione, insegnando loro il lavoro amministrativo e di marketing. Ho provato un grande orgoglio quando i lavoratori della Zanon - che era stata inaugurata da Videla e da Martínez De Hoz all'epoca della dittatura - ci hanno chiamate a inaugurarla di nuovo e ci hanno dedicato una linea di piastrelle disegnate da loro. Qual è il bilancio di queste occupazioni? La Zanon ha creato la nuova ceramica 'Mapuche', con motivi tipici della cultura indigena, che è molto bella e viene comprata anche all'estero. Adesso la fabbrica funziona al 10-15%, ma l'obiettivo è farla funzionare all'80% e vendere l'intera produzione. Salvare la Zanon, oggi, vuol dire che ci salviamo tutti; è come mostrare che abbiamo il paese nelle nostre mani. E che possiamo fare a meno dei sindacati e dei politici che ci hanno tradito. C'è stata molta repressione in questi anni, ma eravamo troppi perché potessero picchiarci e arrestarci tutti, e tra di noi c'è stata molta solidarietà. Pensa che proprio dietro a uno stabilimento occupato c'è un carcere, e i detenuti comuni, quando i lavoratori erano fuori al freddo, nella neve, senza mangiare, per cercare di entrare, hanno donato tutti i giorni metà della loro razione di cibo. È stato incredibile. La solidarietà ha un grande peso contro la repressione. “Il governo Kirchner” Il 27 aprile 2003 si tennero le elezioni presidenziali. Carlos Menem, scontati da poco gli arresti domiciliari, si presentò come candidato e riuscì a ottenere il 24% dei voti – un dato sconcertante su cui la stampa internazionale scrisse fiumi di parole – contro il 22% del suo avversario Néstor Kirchner, governatore di Santa Cruz, la provincia meno popolata della Patagonia. Entrambi venivano dall'ormai multiforme peronismo. Forse per schivare la sconfìtta pronosticata da tutti i sondaggi, Menem rinunciò al ballottaggio e Kirchner si trovò alla Casa rosada con il consenso più basso mai ottenuto da un presidente argentino. Nel suo discorso inaugurale, affermò di voler affrontare la grave situazione economica del paese combattendo la povertà senza ricorrere all'assistenzialismo, dichiarò di volersi distaccare dal modello economico neo-liberista e dalle linee guida del Fondo monetario internazionale, e rivendicò la resistenza dei desaparecidos contro la dittatura. Del gabinetto del governo fecero parte, per la prima volta, ministri che erano stati vittime della repressione. Una settimana dopo l'insediamento ufficiale, il presidente ricevette una delegazione delle Madri alla Casa rosada. "L'espressione emozionata di Kirchner mentre stringeva le mani alle Madri parla da sola" scrisse il giornalista argentino Raúl Zibechi. "Le organizzazioni per i diritti umani hanno sottoposto al presidente una serie di richieste, fra le quali risaltano quella di non firmare gli accordi con gli Stati Uniti che escluderebbero gli argentini dalla Corte penale internazionale, l'abrogazione del decreto che impedisce l'estradizione dei militari accusati dai tribunali di altri paesi, la fine delle pratiche congiunte con le forze armate degli Stati Uniti e l'annullamento delle leggi di ‘Obbedienza dovuta’ e ‘Punto finale’. Kirchner, da parte sua, si è impegnato a consultare gli archivi delle organizzazioni per i diritti umani prima di conferire promozioni in polizia, in modo da escludere i funzionari coinvolti in violazioni dei diritti umani." A pochi mesi dal suo insediamento, il governo Kirchner sembrava dare torto a coloro che avevano scommesso sulla continuità del vecchio corso politico. Accusato di essere una marionetta nelle mani del suo 'padrino' Duhalde, il nuovo presidente si è rivelato un abile politico e, con una mossa a sorpresa, ha ordinato la sostituzione del vertice delle Forze armate, ha dato inizio a un rinnovamento nelle fila della Polizia della provincia di Buenos Aires e ha cercato di modificare la composizione della Corte suprema di giustizia, che era stata lo strumento storico di copertura e di insabbiamento dei più grandi scandali di corruzione istituzionale degli ultimi decenni. "La difesa dei diritti umani occupa un posto centrale nella nuova agenda della repubblica argentina”, ha affermato nel settembre 2003, nel suo discorso davanti alla 58^ assemblea generale delle Nazioni unite, in cui si disse figlio delle Madri di Plaza de Mayo. … Mentre l’economia argentina cominciava a dare segni di ripresa, il presidente iniziò a fare i conti con la storia. Come prima misura, il 24 marzo 2004, a ventotto anni dall’inizio della dittatura militare, Kirchner, a nome dello stato argentino, chiese perdono al popolo per le violazioni dei diritti umani perpetrate durante l’ultimo regime militare. Oggi, pur avendo subito quattro manomissioni all’aereo presidenziale, Kirchner sembra avere saldamente in pugno le redini del paese. “Una speranza” Come avete guardato alla vittoria di Néstor Kirchner? Hebe Tutta la campagna elettorale del 2003 fu molto brutale, costellata da pesanti accuse. Gli argentini, e noi con loro, erano convinti che i tre candidati alla presidenza che venivano dal peronismo, Duhalde, Menem e Kirchner, fossero tutti la stessa cosa. Si presentarono i radicali, i partiti di sinistra... c'erano così tanti candidati che non si sapeva neanche cosa scegliere; alla fine si arrivò al ballottaggio, perché né Kirchner né Menem avevano ottenuto voti sufficienti per vincere al primo turno. Però Menem si ritirò e lasciò spazio al suo avversario, convinto che non avrebbe retto a lungo, senza voti, senza appoggi, senza carisma, senza il sostegno dei media, e invece il nuovo presidente ha stupito tutti, anche noi Madri. Fin dai primi giorni dal suo insediamento, con molta umiltà, ha cominciato a lavorare per il bene del paese. Gli abbiamo chiesto subito un incontro. Le altre Madri dicevano, “no, aspettiamo qualche giorno, stiamo a vedere cosa fa”, ma io ho insistito molto, perché per me era importante che, nel suo primo giorno da presidente, appena entrato alla Casa rosada, ci trovasse lì con una lettera. Arrivò alle nove, e noi eravamo già ad aspettarlo. Dopo una settimana ci concesse un incontro e decidemmo di portargli le nostre rivendicazioni riassunte in dieci punti, anche se, come prima cosa, gli abbiamo chiesto scusa per il fatto di presentargli delle rivendicazioni. “Il fatto è, signor presidente, che noi non siamo abituate a chiedere, siamo abituate ad esigere, gli abbiamo detto. I punti per noi centrali erano: il blocco del pagamento del debito estero; un provvedimento che impedisse il pignoramento delle case ipotecate, quando si trattava dell'unica abitazione; lavoro degno per tutti; la parola fine ai pacchi alimentari e al plan trabajar, che sono umilianti per l'essere umano; il rifiuto della richiesta di impunità per i soldati nordamericani che, quando commettono un reato, possono essere giudicati solo nel loro paese; il rifiuto alla richiesta di concessione di basi americane nel paese. Come vedi, non abbiamo parlato dell’ Obbedienza dovuta o del Punto finale, perché oggi la maggior preoccupazione delle Madri sono le conseguenze della dittatura e non la dittatura in sé. Non abbiamo intenzione di spendere le nostre energie per mettere i responsabili dell'orrore in prigione, ma per non avere bambini che si prostituiscono e che muoiono di fame, uomini senza lavoro, analfabeti, e questo è stato un altro punto delle nostre rivendicazioni. Lui ci detto di essere d'accordo con noi, e a quel punto mi è uscita una frase dal cuore. ”Le devo chiedere scusa - gli ho detto - perché durante tutta la campagna elettorale, quando mi domandavano un parere, ho risposto che Menem, Duhalde e Kirchner sono tutti la stessa spazzatura, però adesso mi rendo conto che lei non è uguale agli altri, e devo dirglielo in faccia. Mi sono sbagliata, signor presidente e lo dirò a tutti, perché quando uno sbaglia lo deve ammettere pubblicamente”. …Dopo abbiamo avuto molti contatti con le associazioni per i diritti umani e siamo state convocate da alcuni ministri, tra cui il ministro delle Politiche sociali, una donna che stava lavorando a un piano urgente contro la fame, concepito in due fasi: dapprima il ministero si sarebbe fatto carico di ogni situazione familiare disperata, preoccupandosi che ai bambini sotto i cinque anni non mancassero cibo e medicine; in un secondo tempo, avrebbe pensato a tutelare nello stesso modo i ragazzi fino ai quattordici anni. Quando il progetto venne presentato, diedero un ricevimento alla Casa rosada e venni invitata; era la prima volta in ventisei anni che accettavo di partecipare a un atto ufficiale del governo. Non ti ho mai sentito parlare così. Sì, adesso dico il 'nostro' presidente, e quasi non ci credo io stessa, ma le cose che sta facendo segnano un radicale cambio di prospettiva: ha visitato le carceri, ha cominciato a studiare l'intero sistema penitenziale, la diffusione della droga in carcere... ogni giorno ci svegliamo con una sorpresa e con molte discussioni. Ha messo degli uomini e delle donne molto validi in posti importanti, senza badare se appartengano o meno al suo partito. Il segretario governativo per i Diritti umani è una bravissima persona, e alla direzione della televisione statale ha messo un uomo impegnato da sempre nel sociale. Un'onesta e intelligente giornalista è diventata direttore della radio nazionale. Però abbiamo detto a Kirchner che non gli firmiamo una delega in bianco, che per ora lo sosteniamo, ma che staremo a vedere nel tempo il suo operato. La cosa che gli contestiamo, è che nel suo governo ci sono ancora residui del vecchio regime, a cominciare dal vicepresidente e dal ministro della Giustizia. Inoltre il governo ha grossi problemi con le amministrazioni delle province, che sono guidate da mafiosi della destra peronista che le considerano un proprio feudo. Il rapporto tra il presidente e le Madri è buono, ma noi manteniamo il nostro modo di procedere; appoggiamo quello che va bene e critichiamo quello che va male. In ogni discorso del giovedì, davanti alla Casa rosada, commentiamo quello che accade nel paese e, come abbiamo sempre fatto, se c'è qualcosa da dire non teniamo la bocca chiusa. Credo che tra noi le cose siano chiare. Una volta gli abbiamo detto che non eravamo più in grado di pagare l'affitto dell'edificio in cui si trovano la Casa e l'università delle Madri e che correvamo il rischio di essere sfrattate, e lui si è offerto di darci una mano, ma gli abbiamo risposto di no. “Voglio spiegarle chi siamo veramente noi Madri - gli ho detto. - Noi non crediamo nella proprietà privata, abbiamo un'università che rischia lo sfratto, ma che è rivoluzionaria, combattiva e illegale”. Lui è rimasto un po' stupito e ha risposto, “ma volete legalizzarla”. “No - gli ho detto io - vogliamo continuare a essere libere. Noi Madri occupiamo le terre, le puliamo, mettiamo dei recinti e le diamo ai piqueteros, perché non crediamo nella proprietà privata. Le dico tutto questo, signor presidente, perché non vogliamo che prima o poi qualcuno venga a dirle che le Madri hanno aperto un caffè letterario senza permessi, e anche un'università senza permessi. Preferisco dirglielo io. Ma, anche se non le sembrerà vero, la nostra università offre consulenze alle scuole nazionali e provinciali sui temi dei diritti umani e dell'educazione popolare, e dunque possiamo dire che siamo illegali, ma non tanto”. Lui rideva, perché non è facile trovare qualcuno che dica queste cose. Adesso la presidenza della nazione ha dichiarato d'interesse nazionale il nostro 11° Congresso di salute mentale e diritti umani, ma abbiamo voluto che si specificasse che non avevamo ricevuto neanche un peso. I funzionari o i dipendenti governativi potevano iscriversi, se lo desideravano, ma non volevamo denaro dal governo. So che state progettando una scuola per i bambini che vivono in strada. Il fatto è che in questo paese prima non c'erano bambini che vivevano nella strada, e quando cominciarono a vedersi, sempre di più, li si cominciò a chiamare, con grande cinismo, ‘niños de la calle’. Prova a pensare la stessa cosa nel tuo paese: vai a fare la spesa, vai al cinema, e vedi bambini che dormono sul marciapiede, sporchi, in balìa di chiunque; ti siedi a fare colazione in un bar, e ogni volta un bambino entra a chiederti un pezzetto di bricche, una bustina di zucchero. All'inizio ti fa male, gli compri un panino, ma alla fine ti abitui e lasci che prenda le tue bustine di zucchero avanzate, magari badando alla borsetta; cominci a chiamarli bambini di strada, e da quel momento non esistono più, non li vedi nemmeno. La preoccupazione maggiore per noi adesso è questa. Come possiamo affrontare una simile situazione? L'idea dei nostri figli era l'educazione, la formazione, però nella loro epoca, per quanto cattiva fosse, non c'erano bambini ridotti così. Adesso stiamo facendo delle riunioni con due preti che lavorano nelle villas miseria e che sanno che è diffìcile, perché quando un bambino di cinque, di sette anni, si è abituato a cavarsela da solo nella strada, senza mai essere andato a scuola, senza riconoscere l'autorità di nessuno, diventa un ribelle. Bisogna cominciare a lavorare con i bambini piccoli, da tre a cinque anni, perché la prostituzione ormai si è abbassata a otto anni, e all'età in cui dovrebbero iniziare la scuola primaria già stanno lì, sulla strada. Se passi sull'avenida 9 de Julio, che è in pieno centro, a qualsiasi ora del giorno vedi delle bambine che salgono sulle auto. Uno di questi due preti ha ottenuto che due grandi ospedali di Buenos Aires seguano i bambini che hanno l'Aids, perché adesso non hanno nemmeno diritto all'assistenza ospedaliera. Vogliamo aprire un luogo dove i bambini possano andare e venire, senza essere obbligati a fermarsi; dove possano mangiare, studiare, essere curati, accuditi; dove gli vengano dati vestiti. E vogliamo che siano formati al lavoro, perché non è un male che, in questa situazione, i bambini lavorino, è un male che siano sfruttati. Vogliamo insegnare loro un mestiere, a conoscere la terra, ma senza obbligarli, devono venire in libertà, perché lì trovano qualcosa che a loro piace, che per loro è importante. Non voglio la scuola che conoscono tutti, voglio un posto dove possano trovare quello che desiderano e non hanno; un computer, una macchina fotografica, una videocamera, materiale per dipingere, per scrivere, per ballare, tutti gli strumenti musicali possibili... Se questo bambino a cui non piace studiare, a cui piace la strada, sa che tutto quello che lo appassiona e che desidera è lì perché lo usi, a un certo punto comincerà ad amarlo, a vedere che può prenderlo, può usarlo; che è degno di tutto questo, che non gli è toccato alla lotteria di essere povero e marginale, che la vita deve darti un'opportunità, e allora, lentamente lo si potrà anche portare all'amore per il sapere. Questa è l'idea che abbiamo; se funzionerà, non lo so, bisogna provare. “Memoria fertile” Cosa pensate del progetto del presidente Kirchner sull'Esma? Hebe Siamo contrarie, assolutamente contrarie all'idea di fare un museo dell'orrore, perché non avrebbe niente a che vedere con noi. Abbiamo detto al presidente che vorremmo che lì dentro si aprisse una scuola di arti popolari, e lui ci ha chiesto di presentare un progetto, ma non lo abbiamo fatto, perché l'Esma è tuttora un luogo pieno di militari; quando non ci sarà più un solo militare della Marina, allora presenteremo il nostro progetto. Vogliamo una scuola di arte popolare che resti aperta tutto il giorno, che sia sempre piena di gente, di giovani che insegnano, che apprendono, che camminano insieme. Del museo dell'orrore non sappiamo che farcene, vogliamo che la storia venga ricordata per quello che dicevano i nostri figli, per quello per cui lottavano, per quello che hanno dato al paese, per i loro sogni e le loro speranze, e tutto questo è contenuto nella scuola di arte popolare. È questa, per te, la memoria? Sicuro, per me e per le Madri l'unica memoria è questa. Memoria della vita contro la memoria dell'orrore. La prima è memoria fertile, l'altra è memoria statica, che si spegne nei monumenti, nel marmo, nel freddo, mentre la memoria ha bisogno di calore, del calore umano che viene dalla gente che dipinge, che scrive, che si esprime, che canta, che si diverte e sta insieme. Note su Daniela Padoan Daniela Padoan, giornalista e scrittrice, collabora con “Il Manifesto” e con la rivista “Via Dogana”; ha lavorato come autrice per Rai Educational e per RadioRai. Tra i suoi libri, oltre a questo ultimo lavoro, “Miti e leggende del mondo antico” (Sansoni, 1996) e “Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz” (Bompiani 2004). Ha curato “Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres de Plaza de Mayo (Ediciones Asociación Madres de Plaza de Mayo, 2003) e ha realizzato un documentario sulle Madri di Plaza de Mayo per Rai 3.