cultura

I Montemarte diventano un libro, 800 pagine in cerca di editore

lunedì 30 luglio 2018
di Livia Di Schino
I Montemarte diventano un libro, 800 pagine in cerca di editore

Come la verde e rigogliosa vegetazione che oggi trova continuità nelle pietre che un tempo delimitavano gli spazi interni ed esterni di quelle che furono sale nobiliari, dove eteree signore facevano fiorire la propria bellezza impreziosita da lussuosi abiti mentre capitani di ventura decidevano sulle sorti di comuni che si fronteggiavano per il governo di territori, così a poco a poco si è fatta avanti negli anni la ricerca, lo studio e una consapevolezza sempre più coinvolta di chi quelle stanze nell’immaginazione le ha visitate più e più volte.

Ciò che oggi rimane del Castello di Montemarte sono solo antiche rovine, avvolte in un silenzio spettrale nel quale ci si immerge progressivamente affrontando un impervio percorso in salita che prima tra la polverosa terra indurita dall’infuocato sole e poi nell’incertezza dell’ombra del bosco in pochi ormai si scoprono a fare. Resti quelli che si scorgono sulla sommità che di certo non rammentano la temuta invadenza di tale residenza che per secoli ha visto appesantire i pensieri della vicina città di Todi e della sua gente. Un luogo, dominante sulla vallata, che ha rappresentato prestigio, ma anche motivo di preoccupazione per quanti vedendolo sotto l’influenza orvietana lo percepivano come un pericolo, un qualcosa che avrebbe potuto da un momento all’altro mettere a repentaglio antichi e precari equilibri.

Ad appassionarsi a questa storia nella storia, che si colora di schiarite nella tempesta e si compone di conflitti sanguinosi e di strategie che oggi definiremo diplomatiche, è stato il professor Sandro Tiberini della Deputazione Storia Patria Umbria, che dal 2008 ha portato avanti gli studi di un’antica e nobile famiglia che ancora oggi richiama nell’immaginario collettivo scenari antichi, idealizzati che proprio grazie a rievocazioni storiche - la prossima nella tradizionale data del 16 agosto a Monteleone d’Orvieto, che fu uno dei tanti possedimenti di questa dinastia - assumono un connotato nostalgico, forse ingiustamente riconosciuto a contesti dove spesso si dimentica che a dominare era per la maggior parte degli uomini e delle donne la miseria, la mancanza di istruzione e il valore della forza fisica.

In questo contesto, descritto da una prospettiva privilegiata di chi di quegli atti sopravvissuti ai secoli ne era stato protagonista, si è addentrato il professore Tiberini che, come un vero e proprio "indagatore della storia", ha cercato documenti e impolverate carte che a partire da una prima e casuale ricerca commissionata per comporre alcune schede riguardanti personaggi di questa famiglia, Ugolino e Francesco (fratelli vissuti nel 1300), lo hanno portato per anni per archivi, per due provincie italiane: Perugia e Terni.

"Il mio lavoro che si occupa in prevalenza del periodo che va dal XIII e al XV secolo - ha spiegato Tiberini - è stato animato dallo spirito di conoscenza, in quanto su questa antica e nobile dinastia non ci sono molte indagini storiografiche, se non fonti dirette di archivio. Fonti scritte in latino antico, scrittura che va saputa leggere e interpretare e quindi non consultabile con facilità da tutti".

E quindi tanto studio, schede compilate a matita e documenti accuratamente fotografati, ricerche sistematiche ma anche scoperte fortuite, che hanno portato alla stesura di un volume che oggi custodito in un buio cassetto di uno scrittoio vorrebbe venire alla luce: 800 pagine in cerca di editore. “Certamente anche la componente della fortuna entra in gioco nel lavoro di ricerca - racconta Tiberini ripercorrendo le sue giornate di studi -, proprio come quella dell’interpretazione che si deve basare su conoscenze ma anche su intuizioni che, scevre da ogni preconcetto e condizionamento, si possono avere anche grazie ad altri approfondimenti e pubblicazioni fatti. Elementi che servono per mettere insieme i tasselli di un enorme puzzle e quando possibile a spiegare perché le vicende si siano evolute in un certo senso anziché in un altro. Contesti che si arricchiscono di altre ricerche, di altre famiglie, di vicende che potrebbero apparire estranee, ma che poi in realtà sono tutt’altro che irrilevanti".

E di irrilevante c’è ben poco quando si tratta di politiche matrimoniali o di lotte per possedimenti o potere. Come nel caso del castello, quello di Montemarte appunto, che tra il 1220 e 1230 diviene possedimento di Andrea, figlio di Farolfo di Corbara, che diventa così un Montemarte. "E’ il primo a portare questa denominazione - dice il professore -, diventando così un protagonista del suo tempo, un antieroe per i tuderti che lo vedono con non poche preoccupazioni. La sua presenza innescherà un sanguinoso conflitto tra Todi e Orvieto che portò alla cattura del cavaliere, alla sua prigionia e alla distruzione del castello stesso". Una storia che avrebbe potuto trovare un epilogo con queste vicende se non fosse intervenuto qualcuno in suo aiuto.

"Andrea di Montemarte non morì in questo modo: fu liberato per volontà del Papa e il castello fu ricostruito. Orvieto, grazie ai Montemarte, mantenne la propria roccaforte su Todi, oggi diremmo una zona cuscinetto". Ma i colpi di scena non finiscono qua. "Nel 1290 il Castello di Montemarte fu venduto a Todi (l’atto si trova nell’archivio della città di Jacopone) - racconta il professore -, tramite Perugia, per la cifra spropositata di 25 mila fiorini". Secondo la teoria di Tiberini, la potenza di Orvieto stava diventando scomoda e quindi qualcuno cercò di mettere un freno a questa ascesa. Una penalizzazione che però fu sfruttata come un’opportunità dal casato che seppe far fruttare quella che era per allora una cospicua ricchezza. "Con tutto quel denaro - continua il ricercatore - i Montemarte si assicurarono una serie di possedimenti lungo la valle del Chiani. Tra questi, castelli come Fabro, Cetona, Monteleone d’Orvieto, Montegabbione, Fighine, Camporsevoli, San Casciano, Benano e Salci".

Territori, castelli e vallate che ebbero sorti diverse. "Perché a un certo punto, nel 1320, i Montemarte si dividono in due rami, che comunque (anche se tutt’altro che scontato) rimarranno in ottimi rapporti. La parte più ricca dei possedimenti, quelli più antichi - sottolinea Tiberini - va ai Corbara, che arriveranno a vedere la fine del 1600; mentre ai Titignano, che diventarono signori di terreni di minor valore, spettò di vedere l’alba dei primi anni dell’800". Ma cosa va a determinare questi duecento anni di differenza? Per Tiberini, a fare la differenza è soprattutto un atto notarile: l’istituzione del Maggiorascato.

"A un certo punto nella storia dei Titignano si incontra questo documento - spiega il professore -. Siamo negli anni ’60 nel 1500 e i Titignano per volontà di Ettore e Sigismonda, sua moglie, decidono che le proprietà dovranno passare al primogenito maschio, di generazione in generazione. Un atto che ci dimostra quanto per questo ramo della famiglia fosse importante la continuità della discendenza, nella difesa dei beni e dei titoli. Una decisione che fu pagata, come allora era consuetudine, dal sacrificio dei cadetti e delle figlie femmine".