cultura

"Salviamo la memoria delle librerie storiche"

martedì 31 ottobre 2017
di Susanna Tamaro
"Salviamo la memoria delle librerie storiche"

Anche Susanna Tamaro, dalle colonne cartacee e virtuali del Corriere della Sera, interviene sul rischio chiusura della Libreria dei Sette di Orvieto.

Orvieto è la mia città di riferimento da quasi trent’anni. E trent’anni sono un tempo abbastanza lungo per avere una visione di insieme della capacità di crescita e di valorizzazione di una piccola città. Crescita e valorizzazione che purtroppo, nel corso di questi stessi anni, non sono mai avvenute né state incoraggiate. E dire che Orvieto, con il suo Duomo, la sua storia, i suoi monumenti, il suo centro storico, avrebbe tutti i numeri per essere considerato un irrinunciabile gioiello del patrimonio culturale italiano, capace di attrarre visitatori da tutto il mondo. Ma l’Umbria — soprattutto questa parte dell’Umbria — sembra essere preda di un’arcaica sonnolenza. Abbiamo il più alto numero di addetti alla Pubblica Amministrazione in relazione a quello degli abitanti, ma purtroppo questa abbondanza di impiego non si è mai trasformata in una realtà di efficiente attivismo piuttosto in una moltitudine di burocrati capaci, con il loro piccolo potere, di rendere difficoltosa ogni iniziativa. Se la questione fosse la classica Mors tua, vita mea, sarebbe ancora un segno di vitalità, per quanto darwiniana. Invece qui siamo al Mors tua, supravivo ego. Un nuovo motto araldico che credo si potrebbe adattare a molte realtà nazionali.

Dico questo perché ho appena appreso con estrema tristezza che la Libreria dei Sette, che quest’anno avrebbe festeggiato i 95 anni di attività, sarà costretta a chiudere i battenti dopo Natale. A dare il grido di allarme è stato Riccardo Campino — appassionato gestore della libreria dal 1994 insieme alle sorelle Enza e Monica — in un affollato incontro tenuto il 21 ottobre all’interno del Palazzo dei Sette, sede della libreria. Fino al 2016 le librerie sulla Rupe erano tre. La prima a chiudere è stata “Parole ribelli”. Quando sparirà quella dei Campino, ne rimarrà aperta soltanto una minuscola, gestita con grande passione e professionalità. Ma fino a quando, mi chiedo, potrà resistere anche questa realtà residua all’inarrestabile avanzata delle catene di mutande che stanno colonizzando tutti i corsi principali delle nostre città? La chiusura di un negozio storico è sempre un impoverimento per questo tipo di comunità ma, quando si tratta di una libreria, le cose diventano tristemente più gravi.

Che cos’è infatti una libreria se non il cuore pulsante di una piccola città di provincia? Grazie al lavoro e alla passione dei fratelli Campino, in questi venticinque anni sono passati per Orvieto ben 75 autori, da Tiziano Terzani, a Vasquez Montalban, da Tahar Ben Jelloun, a David Grossman ad Amin Maalouf, per non parlare degli italiani: Ammaniti, Carofiglio, Mazzucco, De Carlo, Faletti, Mazzantini, Uto Ughi, Tabucchi e via dicendo. Questo a significare che una libreria non è solo una mera rivendita commerciale ma è una realtà in grado di produrre — e proporre — cultura. E la cultura, continuo caparbiamente a credere, è l’unico argine in grado di porre un freno al dilagare della barbarie che sta montando da ogni dove.

In questi venticinque anni la Libreria dei Sette non è stata soltanto un punto di incontro letterario ma ha lavorato anche moltissimo con le scuole, a partire dai bambini dell’asilo, facendo così una preziosa opera di alfabetizzazione a favore delle nuove generazioni. Inutile dire che tutte le spese di queste molteplici iniziative sono sempre state unicamente a carico dei librai, spese che sicuramente non possono essere state compensate dalla vendita dei libri, data la modesta dimensione della cittadina e dei suoi abitanti. Le spese, appunto. Nota dolente di ogni libraio. Già perché, nel frattempo, negli ultimi dieci anni tre grandi sventure si sono abbattuti sulla categoria: il crollo verticale dei lettori — in Italia una percentuale già risicatissima — l’avvento della lettura digitale e soprattutto l’irrompere prepotente di Amazon. Se aggiungiamo il costo esorbitante dell’affitto — in questo caso il proprietario della Libreria dei Sette è il Comune — il peso degli stipendi, delle spese vive e delle tasse, che nel nostro paese gravano in maniera direi patologica su qualsiasi attività, non è difficile capire che l’unica strada da percorrere per chi ha una libreria è la chiusura. E’ il mercato, bellezza. Torniamo sempre al solito discorso. Il comune di Orvieto ha già risposto ai Campino che non è in grado di abbassare l’affitto perché è congruo a quello del mercato.

Ma siamo sicuri che la nostra vita sia tutta riconducibile alla voce mercato? E siamo sicuri che accettare supinamente questo genere di cose, con la scusante che il mondo va così e non ci si può fare niente, sia l’atteggiamento più saggio da mantenere? In altri paesi europei, Germania, Francia e Spagna ad esempio, le librerie godono di sostegni statali sotto forma di sgravi fiscali, di affitti controllati, proprio perché viene riconosciuta la loro particolare fragilità e la loro insostituibile funzione sociale. Da noi si finanziano giustamente i teatri, gli enti lirici, i musei, le biblioteche, (a cui vanno le briciole) — Orvieto ne ha una splendida aperta con orari risicatissimi perché il Comune non è in grado di pagare il personale — ma a nessuno è venuto in mente di aiutare le librerie, in quanto considerate puri esercizi commerciali, quindi estranei al modesto ombrello statale. Salviamo la Libreria dei Sette e tutte le librerie nelle stesse condizioni! Non possiamo continuare ad assistere passivamente all’avanzare del degrado culturale e dell’analfabetismo di ritorno. La chiusura di una libreria, infatti, è sempre una sconfitta di civiltà, un arrendersi al mondo che ci vuole trasformare tutti in compulsivi compratori di mutande.