cultura

Mogol si racconta ad Alessandra Carnevali: "Il mio mestiere è vivere la vita"

martedì 18 ottobre 2016
di Davide Pompei
Mogol si racconta ad Alessandra Carnevali: "Il mio mestiere è vivere la vita"

"Parole che, come poesie, tutti gli italiani hanno nel cuore. Il racconto di una vita attraverso canzoni, ricordi ed emozioni diventati parte della nostra memoria". Si presenta così l'autobiografia "Il mio mestiere è vivere la vita", edita da Rizzoli. Si presenta così il suo autore, Giulio Rapetti, in arte Mogol, che ha fatto della scrittura il suo mestiere e la sua vita. E del suo racconto, un continuo racconto. "Ho vissuto da coraggioso o, come dice mia moglie, da incosciente ma sempre in base alle mie passioni" esordisce lunedì 17 ottobre nell'Auditorium di Palazzo Coelli, sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, ospite dell'annunciato evento "Orvieto e Mogol insieme per la solidarietà".

A colloquio con Alessandra Carnevali, diplomata al Centro Europeo di Toscolano, la modernissima scuola per autori, musicisti e cantanti da lui fondata nel 1992, "il più grande e importante autore italiano di testi di canzoni" che giusto mercoledì 17 agosto ha compiuto 80 anni, non dimentica Mango. "Per lui – ricorda – ho scritto brani come 'Oro', 'Nella mia città', 'Australia'. È stato unico, un grande uomo prima che un artista. Amava la terra, la famiglia e ha dimostrato, fino all'ultimo, il rispetto verso il suo pubblico. Si meritava di più. Il suo nome, comunque, rimarrà".

Artisti di talento oggi? "Arisa e le sue canzoni come 'La notte' o 'Controvento', scritte dal bravissimo Giuseppe Anastasi. Non ho avuto tempo di soffermarmi su altri". E i talent? "Non li seguo. Il solo fatto che due persone chiamate a giudicare di fronte alla bravura o meno di un artista, litighino è già una prova della mancanza di competenza. Non è una scuola, è spettacolo. Capita che la gente li segua e si appassioni. Questi programmi costruiscono artisti che poi non riempiono gli stadi.

È la gente che seleziona e tramanda nel tempo, non i critici. La cultura d'élite deve passare attraverso la musica popolare. Per questo sarebbe epocale aprire una sezione pop nei conservatori italiani, specie in un momento di recessione della cultura come quello attuale. Al Festival della Canzone Italiana di Sanremo ho avuto le mie soddisfazioni, ma è cambiato. Ai tempi di Pippo Baudo contava la qualità, ora si punta solo alla notorietà e all'audience e, a distanza di un anno, nessuno ricorda più le canzoni".

A proposito del suo rapporto con l'Umbria, chiarisce che "dove sto io è territorio integro, come nel 1300, un luogo fatto di borghi, animali e aria purissima". "Non mi sono mai pentito di questa scelta. Gli umbri, poi, sono un popolo mite. Non li ho mai visti picchiarsi. In 25 anni, ci siamo conosciuti meglio ed ora stiamo lavorando insieme alla Regione per una serie di iniziative che consentano di far conoscere luoghi da difendere e boschi da non cementificare. Ho intenzione di cavalcare insieme a Terence Hill per far capire quanto sia bella l'Umbria. E lo sport. A cavallo o sott'acqua, ma anche sul campo da calcio ho sempre vissuto grandi emozioni. E qualche momento drammatico".

Il Premio Nobel a Bob Dylan? "L'ha meritato. La poesia è letteratura. Nel suo caso, però, ha a che fare anche con la comunicazione. L'ha cambiata. C'è un prima di lui e un dopo di lui. Prima, il cantante basava tutto sulla potenza vocale. Ora si è più concentrati a incidere sulla cultura popolare. Le sue canzoni di protesta, il suo impegno politico contro la guerra molto criticato dai 'babbioni' come avrebbe detto Battisti, sono serviti a buttare giù dei muri.

Come quello di Berlino. A volte è necessario. Ha aperto la strada agli autori di canzoni. Oggi un libro di poesie raggiunge mille persone, una canzone arriva a 30 milioni. Perché allora, seppure quest'ultima abbia contenuti e forma di poesia, non è considerata tale? Ecco, Dylan ha buttato giù questo muro. Quello che non condivido è che abbia fatto finta di non aver ricevuto il premio. Se avessi vissuto questo momento, sarei stato grato. Quando l'ho conosciuto a Londra, con me era stato gentile". In quell'occasione aveva cambiato un suo testo, così come per David Bowie.

E poi, c'è Lucio Battisti "riconosciuto grande in tutto il mondo", "una mente curiosa e di grande capacità analitica" e la canzone "L'arcobaleno", nata in autostrada, in 18 minuti, e legata alle vicende di dodici persone e al loro rapporto con il Soprannaturale. "Ne parlo sempre con molta difficoltà – rivela – e capisco chi non ci crede. È scritto tutto nel libro 'L'arcobaleno. Storia vera di Lucio Battisti vissuta da Mogol e dagli altri che c'erano' pubblicato per Giunti da Gianfranco Salvatore. Non posso pensare che sia tutto una coincidenza. Siamo sempre stati nutriti dalla natura, siamo nati e abbiamo subito trovato chi ci ha assistito. Perché non dovrebbe farlo nel momento della dipartita? Non demonizziamo la morte, ma accettiamola con grande serenità. È il modo migliore per sentirsi bene, anche nella vita".