cultura

Arco del 10° Anno a Carlo Verdone. Quarant'anni di successi, tra progetti, risate e nostalgia

giovedì 28 luglio 2016
di Davide Pompei
Arco del 10° Anno a Carlo Verdone. Quarant'anni di successi, tra progetti, risate e nostalgia

"Bisognerebbe vivere qua, non in quella città problematica e sciatta che è diventata Roma". Per arrivare, ha impiegato tre ore e un quarto. "Lo stesso tempo che ci si mette per andare a San Pietroburgo". Alla sede del Mibact dove avrebbe dovuto trovarsi venerdì 22 luglio, ha mandato il fratello con una lettera di scuse e la promessa di recuperare la sera successiva. "Un errore organizzativo – ammette – il primo nella mia carriera artistica". Che, nel 2017, toccherà quota 40.

"Un numero spaventoso" confida, sincero, Carlo Verdone di ritorno a Montefiascone, raggiunta già nel 2009 in una pausa dal set di "Io, loro e Lara", per aprire la decima edizione di Est Film Festival e ritirare dalle mani del primo cittadino l'Arco del 10° Anno. "Un riconoscimento – dice – che contraccambio con affetto dal momento che sono legato a questo festival e a questa città". Vent'anni fa esatti, invece, si trovava a Bruxelles. Iniziava la lavorazione di "Sono pazzo di Iris Blond", girato quasi completamente in Belgio.

"Sono affezionato a quel film e mi sembrava giusto celebrarlo in qualche modo. Amo le atmosfere nordiche. Le guardo non per depressione, ma con atteggiamento leopardiano". Le parole che precedono la proiezione sono un concentrato di risate e confessioni a cuore aperto. Con umiltà e saggezza, profondità e ironia. Freschezza, anche oggi che "si è consumati dalle repliche di sketch televisivi e video su YouTube". "Alla fine, ne esci spolpato. E la gente ha bisogno di cose nuove".

"Il mio pubblico primario – spiega – ha i capelli bianchi, ma riesco ancora a portare al cinema generazioni differenti. Se ricevo tutto questo affetto lo devo anche a un pubblico giovane. Non può essere quello di quando avevo trent'anni. Come attore, nasco nel 1979 con 'Un sacco bello', uscito nelle sale l'anno successivo. È stato, ed è tuttora, un periodo incredibile.

Probabilmente, ho avuto le antenne dritte nel fissare bene il periodo che vivevo cogliendo gesti, cambiamenti del linguaggio, problematiche del momento, nevrosi, mitomanie, fragilità di coppia nei sentimenti e debolezze con figli che, decennio dopo decennio, sono mutate. 'O famo strano?, oggi, è superato ma ha anticipato l'arrivo del vuoto pneumatico portato dall'avvento dei cellulari".

Dalla laurea in Lettere Moderne a quella "doloris causa" in Medicina, passando per la galleria di personaggi proposti nel teatro delle cantine davanti a trenta persone. Dai cinque mesi da disoccupato, seguiti a "Bianco, rosso e Verdone", alla fiducia ripagata di Mario Cecchi Gori. "Nel 1982 con 'Borotalco' mi giocavo tutto: dovevo dimostrare di non essere solo il virtuoso che faceva i caratteri, ma di possedere anche un'anima. Il film alla fine uscì, vinse cinque David di Donatello e lì ho iniziato a camminare". Facendo incetta di premi e riconoscimenti.

"L'ansia – assicura – dopo un po', si placa da sola. È madre e matrigna. Se la incanali bene ti dà il turbo, sul lavoro è adrenalina. L'era dei personaggi si chiude con 'Grande, grosso e Verdone'. Continuo ad osservare e ad essere attratto dalla vita quotidiana, dal cambiamento di costume. Negli ultimi film, compresi 'Il mio miglior nemico', 'Posti in piedi in paradiso' e 'Sotto una buona stella' affronto temi molto attuali. Il prossimo sarà incentrato sulle relazioni, sulla voglia di libertà che può avere un uomo di mezza età, quasi a volere tornare un universitario. È un film corale, su tre-quattro coppie e le loro dinamiche, nelle quali si riconosceranno molti spettatori. Arriva dopo la pausa favolistica di 'L'abbiamo fatta grossa'. Sentivo l'esigenza di farlo, guardando alla realtà ma dando più spazio alla fantasia e creando un piccolo giallo rocambolesco. Ogni tanto, ho bisogno anche di cambiare".

La libertà è arrivata con il libro "La casa sopra i portici" (Bompiani, 2014). "La sua scrittura – dice – è stata qualcosa di catartico, un'esperienza magnifica. Non dovevo far ridere per forza e non sentivo la pressione del produttore cinematografico. Si ride, ma con momenti di malinconia e tristezza. Sono stato sincero nel raccontare la casa dove sono nato e che abbiamo mantenuto fino alla morte di mio padre. Prima di restituirla al Vaticano, proprietario dell'immobile, ho voluto far entrare per un'ultima volta tanta gente nelle vicende di quella casa che ricordo perfettamente. L'intento era quello di omaggiare mio padre Mario e la mia famiglia.

Gli intellettuali, alla fine degli anni '40, guadagnavano poco. Non erano buoni partiti per una donna. Mia madre però era innamorata di questo bravo ragazzo senese, molto colto, amante di cinema, letteratura e futuristi. Si sposarono e andarono a vivere nella casa sopra i portici. Lì sono morti i nonni ed è diventata la casa dei genitori. Lì sono nato io, con una levatrice in quella che prima di essere il soggiorno era la camera da letto di papà e mamma. Quella casa era tutto. Restituirla, è stata fonte di dolore. Scrivere è stato come fermare il tempo.

Quest'estate, durante le pause dalla sceneggiatura, comincerò a scrivere i primi capitoli del prossimo libro. Lo faccio volentieri, ho già delle idee che si basano sulla memoria, instillando gocce di nostalgia. Non che non ami il presente o non sia attratto dal futuro. È che le notizie che arrivano ogni giorno non sono mai incoraggianti. È difficile per chi scrive cinema, ma non solo, farlo in una simile atmosfera. Ci sentiamo inadeguati rispetto a questo tempo e siamo tutti alla ricerca dell'isola felice. Il cinema, se fatto bene, è anche antidepressivo, privo di effetti collaterali. Un critico mi ha definito 'malincomico'. Mi ci riconosco".

E la regia? "È qualcosa di molto delicato. Artisticamente in tanti, sono nati con me. Da Margherita Buy ad Asia Argento, da Claudia Gerini a Natasha Hovey. Ho recuperato Elena Fabrizi, la Sora Lella, come caratterista. Reinventato Angelo Infante, il bello. Convertito Marco Giallini alla commedia. I miei attori hanno ricevuto più premi di me. Sono contento per loro, vuol dire che ci avevo visto giusto. Un buon regista deve azzardare, trovare qualcosa di nuovo. E, a un certo punto, avere il coraggio di fare un piccolo passo indietro. Ultimamente lascio molto spazio agli attori, meglio se a giovani di talento, e mi concentro sulla regia. C'è bisogno di un ricambio generazionale, voglio essere il loro allenatore.

'Viaggi di nozze' è stato il film più divertente, oltre che il più faticoso. Improvvisavo di continuo. Io nasco e morirò nella commedia. È il genere che mi ha costruito e che più mi piace, pur sentendo il bisogno di fare altro. Nel cinema italiano, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino al momento sono tra i registi che amo di più". Quando quest'ultimo gli ha chiesto dodici pose in un film corale e complesso come 'La grande bellezza', è stata una boccata d'aria, una liberazione, l'opportunità di fare altro: recitare in un film, senza lo sforzo di tenere tutto sotto controllo, risate comprese. "Sento di avere un buon potenziale per fare altro. Posso sempre dire di avere recitato in un film che ha vinto l'Oscar. Non capita mai". O quasi.