cultura

Il "tema" secondo Elio Taffi. Servo per due

lunedì 12 gennaio 2015
di Elio Taffi
Il "tema" secondo Elio Taffi. Servo per due

Si sa, le brutte malattie ci mettono molto per guarire. E Umbria Jazz Winter è la mia malattia preferita, da vari anni… Cosa fare per disintossicarmene e tentare di stare meglio? Aspettare 350 giorni o provare a scrivere qualche paginetta del mio strampalato diario su un qualche altro argomento? Se mi state leggendo, la risposta è piuttosto intuibile. In realtà, il teatro mi affascina da sempre; da quando, grazie al suggerimento di una persona a me molto cara, seguii il mio primo spettacolo al Mancinelli, quasi venticinque anni fa. Ed il battesimo fu felice, anzi felicissimo: “La Tempesta” di Shakespeare, nella rilettura dell’immenso Glauco Mauri, già allora il gigante del teatro italiano, con Roberto Sturno splendido Calibano…

Quanto mi ammaliò quell’esile figura, dai capelli color vaniglia, che con voce sottile e melodiosa attirava su di sé l’attenzione e l’ammirazione di cinquecento persone mentr’io ancora non capivo il perché succedesse ciò. Elio Taffi sta invecchiando, si immalinconisce spesso, incede troppo nei ricordi… Comunque, Servo per due è considerato uno dei fenomeni più recenti del teatro nazionale e l’occasione di godermelo al Teatro Mancinelli è ghiotta. Dal foyer arrivo al grazioso bar interno, dove gusto un sorprendente caffè, corto ed energico come piace a me e come mi sarebbe occorso.

Pago, mi complimento con la ragazza e faccio per avvicinarmi alla porta rossa d’entrata, quando sento una garbata musichetta provenire dalla platea. Scorgo sul palcoscenico una mini-orchestrina, quattro elementi quattro che suonano delicatamente “Ho un sassolino nella scarpa” del mitico Natalino Otto; subito dopo i musicisti attaccano “Maramao perché sei morto”. Carino, penso dentro di me, accogliere ed intrattenere gli ospiti, prima dello spettacolo, con musica dal vivo; condivido questo pensiero con la bellissima signorina Simona, una delle solerti maschere del Teatro, la quale, con la solita cortesia, mi risponde che in realtà la rappresentazione è già iniziata. Ah, mi sa che Elio Taffi ci capisce parecchio di teatro, si…

Ancora “Mille lire al mese” e il dimenticato ma straordinario “Pinguino innamorato”: non c’è che dire, le musiche degli anni trenta sono irresistibili. Applausi convinti per il gruppo Musica da ripostiglio (Luca Pirozzi chitarra e banjo, Luca Giacomelli chitarra, Raffaele Toninelli contrabbasso, Emanuele Pellegrini percussioni, quest’ultimo meraviglioso nel suo solido aplomb e nella giacca misuratissima al centimetro), quattro eccellenti musicisti in grado di padroneggiare strumenti, voci e spartiti e tirarvi fuori spensieratezza e soavità. Bravissimi!

Inizia la parte recitata. Carlo Goldoni scrive “Il servitore di due padroni” nel 1745, in maniera più o meno abbozzata perché così usava, affidandosi all’inventiva ed alla improvvisazione tipiche della tradizione della Commedia dell’Arte; lo stesso autore ne redasse successivamente una versione estesa e completa. Il lavoro è brillante ed amusant; la compagnia, tredici attori, strepitosa. Dalle note di sala apprendo che sono stati allestiti ben due cast (solamente tre gli elementi presenti in entrambi), uno per recita, il che accresce la stima per la complessa mole di lavoro svolta.

Da vario tempo, ad Orvieto, uno spettacolo non colpiva nel segno come “Servo per due”; la recitazione di tutti gli attori è stata inappuntabile, frutto di una coordinazione scrupolosa. La trascrizione e l’adattamento in lingua italiana di Favino-Sassanelli-Nissen-Solder ha probabilmente elargito maggiore elasticità espressiva alle figure sul palco che si muovevano con naturalezza talmente verace da sembrare quasi posticcia.

Naturalmente, Pierfrancesco Favino l’ha fatta da padrone; dopo sette-otto minuti appare sulla scena e la sua comparsa è eclatante almeno come lo sarebbe quella un venditore di granite agli agrumi nel deserto del Gobi, ad oltre 500 miglia dall’oasi più vicina.
Favino viene accolto da un applauso scrosciante e slegato dalle dinamiche recitative, omaggio riservato ai grandissimi del teatro (ricordo che avvenne così per Pino Micol nel “Don Chisciotte” di Scaparro, per Gabriele Lavia in “Memorie dal sottosuolo”, sempre per Glauco Mauri, ma anche per Fabrizio Frizzi nella commedia “Lo sbaglio di essere vivo!”). Subito mette in chiaro doti atletiche e mimiche insospettabili per chi lo ha seguito prevalentemente sul piccolo schermo ed una verve capace di elettrizzare anche i compagni.

Lo spettacolo decolla immediatamente e per oltre due ore e mezzo riesce a calamitare l’attenzione di tutto il Mancinelli.
Non sto ad elogiare, come ho invece avvertito altrove, i momenti in cui, per eccesso di confidenza e benevolenza per il pubblico, Pierfrancesco Favino colloquia con gli spettatori ed anzi li coinvolge direttamente (quantunque la gag della signora architetto di giardini - con tanto di spray ignifugo spruzzato addosso - è stata così inaudita da sembrare credibile, per poi rivelarsi una geniale messa in scena, ma “Il teatro è finzione” si sa, come ha avuto modo di dire lo stesso servo Pippo; forse qualche decennio fa non si sarebbe apprezzata così tanto, né sarebbe stata tanto prolungata, ma anche questo è un segno dei tempi e dei gusti che cambiano e modificano).

Non mi sorprende neanche la bravura nel canto dello stesso prim’attore e degli altri colleghi, tutti di livello considerevole.
E non mi soffermo ulteriormente sul sincronismo così apprezzabile di tempi e uomini. Rimango colpito duramente dalla bravura di Paolo Sassanelli e dalle movenze, degne del miglior teatro di rivista degli anni trenta, che questi esibisce durante l’esecuzione di una garbata canzone: da antologia! Altro elemento che mi affascina: la sceneggiatura; il lavoro di Bean è stato senz’altro pregevole ma la trascrizione di Favino e Sassanelli si rivela di fulgida qualità, il che vuol dire che, esattamente come avviene nella musica classica, ancor oggi è possibile rendere interessante un antico spartito per mezzo di una interpretazione lucida, consapevole, coerente ed originale.

Il testo di Servo per Due è esemplare, ricco di spunti di riflessione e farcito di frasi e note da ricordare:

“Io la minestra non l’ho mai capita, non si mangia con forchetta e coltello. Non è un mangiare”,
“Tu lo sai cos’è uno scorfano? Una donna brutta!”,
“È sempre meglio essere che non essere un oggetto sessuale”,
“Giudicatemi come vorreste essere giudicati voi altri”,
“Spesso bastano poche sillabe per spiegare cosa vorrebbe il cuore”,

fra quelle che mi sono segnato. Il finale è scontato, non potrebbe essere diversamente, ma il breve e quasi timido monologo di Pippo/Favino è una gemma preziosa che consegna il nostro campione ad un futuro quale miglior attore italiano.