cultura

Il medioevo ed il gioco delle apparenze. Di come di dame e cavalieri veniva regolato il lusso

sabato 1 giugno 2013
di Cristina Trequattrini
Il medioevo ed il gioco delle apparenze. Di come di dame e cavalieri veniva regolato il lusso

Ieri pomeriggio, presso la Sala Consiliare del Palazzo Comunale si è tenuta la conferenza "Orvieto e il lusso tra XIII e XVI secolo", organizzata dal Comitato scientifico dell'Associazione Lea Pacini. Ospite della nostra città è stata la Prof.ssa Nico Ottaviani, docente di Storia medioevale presso l'Università degli Studi di Perugia, la quale nel 2005 ha curato per conto del Ministero per i beni e le attività culturali la pubblicazione della Regione Umbria, riguardante le leggi suntuarie nei secoli XIII-XVI: a questo studio hanno collaborato, per la città di Orvieto, anche il Prof. Riccetti, la Direttrice dell'Archivio di Stato di Orvieto Dott.ssa Rossi Caponeri e la Prof.ssa Petrocelli.

Argomento affascinante, poco o per niente narrato alla cittadinanza orvietana, la legislazione suntuaria non è altro che l'insieme delle norme e dei regolamenti che le città medioevali si diedero per regolamentare il lusso e lo spreco di denaro in beni voluttuari e cerimonie, nel tentativo di "mettere ordine nel mondo delle apparenze", dove per apparenze si intendono le vesti e gli ornamenti del corpo.
Nel periodo che intercorre tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento prende vita negli storici una inedita curiosità rispetto agli aspetti della vita quotidiana del medioevo e nei confronti della cultura materiale: nacquero così i primi studi sulle donne, sugli ebrei, sulle abitazioni, sulle vesti e sull'alimentazione; per ogni principale città italiana riscontriamo almeno uno studioso di rilievo abbracciare questa linea storiografica, sotto la quale possiamo ricomprendere anche la legislazione suntuaria.

Tale normativa, per quanto riguarda la città di Orvieto, risulta nota allo storico Luigi Fumi già a partire dagli anni '70 - '80 dell'Ottocento, periodo in cui egli riordina l'Archivio Storico Comunale e cura l'edizione della Carta del Popolo del 1324, pubblicata nel Codice Diplomatico della città di Orvieto.
Sarà però Lucio Riccetti a rilevare per primo l'importanza politica e sociale di tale normativa, ricollegandola strettamente al concetto di buon governo e di decoro della città; nel suo studio intitolato La città costruita, pubblicato nel 1992: egli riporta le frasi con cui il poeta Mastro Mechoro (che il Perali fa risalire alla prima metà del Duecento) celebra la bellezza delle donne orvietane: esse con il loro incedere elegante costituiscono una tentazione per gli uomini che si accendono di passione facendosi confondere e struggendosi d'amore e proprio per questo motivo, nel 1310, le istituzioni orvietane arriveranno a vietarne l'accesso al Palazzo del Comune ed a quello del Popolo.

Quando, a partire dalla fine del Duecento, il mercato aveva cominciato ad offrire la possibilità di far giungere nelle botteghe le stoffe ed il necessario per confezionare dei sontuosi abiti femminili, questi ultimi divennero oggetti del desiderio di tutte le donne, di tutte le età ed estrazione sociale: gli uomini, concedendo alle proprie mogli e figlie queste vesti lussuose, ostentavano pubblicamente quelli che per l'epoca erano degli status symbol, gli abiti erano talmente preziosi da essere annoverati nei testamenti in quanto beni da tramandare da una generazione all'altra, spesso erano oggetto di furto, ancor più spesso lasciati in pegno per ottenere prestiti di consumo.
A partire dalla seconda metà del Duecento le fogge delle vesti divennero estremamente mutevoli e questo forsennato seguire le mode generava diffidenza: l'etica medioevale, infatti, condannava gli sprechi inutili, così come l'eccessiva cura riservata alla componente materiale dell'uomo; modificare le apparenze significava inoltre, per gli uomini del medioevo, sovvertire un ordine, far nascere confusione, acquisire indebitamente un'identità diversa da quella che appartiene, generando una sorta di inganno nei confronti di se stessi e degli altri.

Tornando a parlare della legislazione suntuaria e tralasciando volutamente tutto ciò che riguarda il lusso nelle cerimonie, si vuole incentrare l'attenzione sugli abiti, ricordando che nel 1311 il regolamento prevedeva il divieto di indossare indumenti decorati con oro, argento e perle così come corone realizzate degli stessi materiali, stabilendo inoltre che gli strascichi degli abiti non potessero essere più lunghi di un piede; all'epoca non erano ammesse deroghe, la legge era valida per tutte le categorie sociali e a chi contravveniva veniva comminata una multa di dieci lire.
Tali norme risultano confermate anche nelle fonti statutarie del 1315 e del 1323, mentre invece nei capitoli del 1336 si riscontra un aumento dei divieti: non è consentito indossare cinture d'oro o d'argento di peso superiore a quattro once e lo stesso limite di peso era stabilito per le cinture; le tuniche, le guarnacche ed i mantelli dovevano essere cuciti con un solo tipo di stoffa o al massimo potevano essere realizzati con due tipi di stoffa accostati l'uno all'altro per il verso della lunghezza, i due tessuti non potevano essere intrecciati tra di loro, ne' alternati in righe orizzontali. Tali capitoli non avevano valore retroattivo, per cui le vesti realizzate prima dell'entrata in vigore della legge venivano denunciate ad un apposito ufficio e venivano "bollate", ossia veniva ad essi apposto un bollo per il quale si corrispondeva il pagamento di una tassa: compiuto questo adempimento l'abito poteva essere indossato senza incorrere in sanzioni, ma tale procedura finì per essere utilizzata come stratagemma per aggirare i regolamenti vigenti, anche per quelle vesti confezionate in epoca successiva.

Dalla fase trecentesca in cui tutti i cittadini erano tenuti ad evitare le esagerazioni, si passerà ad un periodo in cui l'appartenenza sociale divenne il discrimine ed il decreto del 1403 stabilirà, così, un'eccezione per le donne dei cavalieri, dei nobili e dei dottori. Per tutto il Quattrocento assisteremo all'azione dei predicatori cristiani volta a sensibilizzare la cittadinanza, come pure le istituzioni, ritenute colpevoli di non riuscire a far rispettare la legislazione esistente: San Bernardino da Siena è presente ad Orvieto nel 1427, frate Angelo da Bolsena nel 1464 e frate Francesco da Viterbo nel 1468. La loro forza di persuasione nei confronti dei governanti locali non risiedette certamente nella motivazione religiosa addotta ai loro sermoni, secondo la quale modificare l'aspetto naturale andava a snaturare l'immagine regalata alle donne da Dio; essi risultarono convincenti laddove addussero soprattutto motivazioni economiche: sperperare infatti le risorse economiche cittadine, immobilizzandole in beni voluttuari non solo non generava ricchezza, bensì favoriva i mercati esteri da cui provenivano il più delle volte i beni di lusso, senza contare che i cittadini, indebitandosi per acquisti che non sempre potevano permettersi, si ritrovavano costretti a rivolgersi ai banchi ebrei per ottenere prestiti ad usura.