cultura

"Quale futuro per Pagliano?" Intervento del Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Orvieto, Paolo Bruschetti

venerdì 29 gennaio 2010

Dopo la conclusione dell'intervento di ricognizione geofisica condotto dall'Università di Perugia nell'area di Pagliano, prendemmo la decisione di dare conto dei risultati scientifici, mettendo in evidenza come solo da una sinergia fra le varie forze in grado di garantire certezza di corretto intervento potevano ottenersi valide soluzioni. D'altronde l'importanza del sito è tale - non solo dal punto di vista strettamente archeologico, ma anche da quello ambientale più in generale e della storia della cultura (vorrei solo ricordare gli scempi dei cantieri autostradali) - che impone una serie di provvedimenti per la valorizzazione e promozione, importanti per lo stesso territorio orvietano in genere. Desidero in poche parole riassumere la situazione di Pagliano e del suo circondario, prima di allargare il mio discorso sulle potenzialità del sito.


Nelle varie fasi storiche vi è stato un intenso sfruttamento sia dell'ampio pianoro compreso fra il Tevere e il Paglia (un'area che in epoca etrusca formava una sorta di cuscinetto fra etruschi ed umbro-italici), sia della fascia collinare e solo in parte pianeggiante alla sinistra del Tevere, territorio politicamente assoggettato alle popolazioni umbre, delle quali restano ampie tracce, sia infine dell'altopiano vulcanico dell'Alfina, che proprio a ridosso della confluenza terminava nell'altura di Castellonchio, uno dei principali insediamenti della fascia sud-orientale volsiniese, importante dall'età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.), e fino all'età ellenistica. Pur mancandone testimonianze dirette, appare quanto mai verosimile che la lunga durata del sito e la sua importanza fosse proprio legata alla funzione di controllo sulla sottostante confluenza fra i due fiumi, e sull'eventuale impianto portuale che lì poteva sorgere.
Sulla sponda opposta del Tevere, che come è ormai ben noto formava la linea di separazione fra "stato" etrusco, ed in particolare orvietano e mondo italico, sorgeva un insediamento per noi sconosciuto, identificabile tuttavia attraverso l'ampia necropoli lungo il vallone San Lorenzo, nell'attuale territorio dei comuni di Montecchio e Baschi, che ha restituito importanti tracce della cultura orvietana.
Non va poi dimenticata la funzione svolta dall'asse fluviale Clanis-Paglia nell'ambito delle relazioni fra la città-stato di Clusium e quella di Velzna, legate da forti vincoli di alleanza militare e politica (soprattutto grazie all'opera del tiranno chiusino Porsenna) e da intense relazioni commerciali e culturali, tanto da costituire fra la fine del VI e il V sec. a.C. una sorta di stato sovracittadino in grado di caratterizzare fortemente la politica "nazionale" dell'Etruria, anche nella relazione con Roma. Attraverso la via fluviale una grande quantità di derrate alimentari, in particolare i cereali prodotti nella Valdichiana e nelle vallate lungo l'Arno, giungevano in quantità nel territorio orvietano dove poi venivano smistate per i mercati umbri, dell'Etruria meridionale e di Roma, dopo essersi ulteriormente incrementati con le produzioni dell'altopiano alfinate, ad ovest di Orvieto: si rammenti che le fonti letterarie latine parlano ripetutamente delle frumentationes, che a partire dal V sec. a.C. le città dell'Etruria indirizzavano verso Roma per far fronte alle ricorrenti carestie alimentari di cui soffriva la città.


Anche in questo caso era indispensabile la presenza di una infrastruttura capace di raccogliere, trasformare e veicolare verso altri mercati le merci arrivate fino lì.
Sulle colline soprastanti il Tevere vi erano inoltre insediamenti produttivi, vocati sia all'agricoltura (una serie di ville-fattorie sono sulle pendici dei rilievi), sia allo sfruttamento delle risorse naturali: in particolare i giacimenti di argilla erano usati per la realizzazione su scala industriale di ceramiche: è in corso di scavo l'officina del vasaio Zosimus presso Scoppieto di Baschi, la cui produzione di sigillata era ampiamente esportata sia sul mercato romano ed ostiense che su quello spagnolo ed africano; il trasporto non poteva avvenire che per via fluviale fino ai mercati di vendita.


Tutti questi elementi dimostrano che la presenza di un grande impianto portuale poteva essere in diretta relazione con la funzione emporica dell'area orvietana, nell'ambito delle relazioni economiche fra nord e sud dell'area etrusco-italica. Pur mancando, al momento, ogni elemento che in modo inequivocabile confermi l'ipotesi (come iscrizioni, tracce murarie tipiche ecc.), quella del porto appare per ora la più attendibile, per topografia e natura dei resti finora emersi.


Dopo l'ampia campagna di scavi condotta senza limitazione di mezzi da Riccardo Mancini, su incarico della Banca Romana, proprietaria del fondo, improvvisamente interrotta nel novembre 1890, al momento dell'esplosione dello scandalo finanziario e politico ben noto, brevi ricerche semiclandestine furono proseguite da tale Amilcare Manassei, fattore della Banca, che così arricchì di reperti una sua residenza orvietana. Purtroppo, forse per la situazione venutasi a creare con la crisi della Banca, o forse per l'ingordigia del Manassei, o forse per qualcos'altro che attualmente ci sfugge, non è al momento possibile rintracciare l'enorme quantità di materiali rinvenuti durante i due anni degli scavi Mancini; di pochi oggetti resta traccia nella residenza di Villanova, pur se di essi mancano elementi certi di identificazione; soprattutto nulla sappiamo delle oltre cinquemila monete rinvenute in quella occasione.
Interventi solo parziali, anche se accomunati dalla volontà di recuperare dall'oblio il grande complesso archeologico, si sono svolti negli anni Venti e poi Cinquanta del Novecento, prima dei grandi e disastrosi avvenimenti degli anni sessanta; prima la costruzione della diga di Corbara, che alterando profondamente corso e portata del Tevere, ha isolato l'area archeologica dal suo principale elemento costitutivo, l'acqua; poi l'Autostrada del Sole, un cui cantiere fu impostato proprio sopra i ruderi, ampiamente compromessi e in parte demoliti.


Finalmente dal 2000, la Soprintendenza, approfittando di un intervento dell'ENEL volto alla pulitura delle sponde fluviali dalla vegetazione, ha riscoperto il sito di Pagliano, avviando una serie di campagne di scavo condotte senza soluzione di continuità fino ad oggi, usufruendo sia di finanziamenti diretti del Ministero che di convenzioni con vari Enti e Istituzioni, prima fra i quali la Regione dell'Umbria attraverso il Parco Fluviale del Tevere. Grazie poi ad un accordo fra Soprintendenza e Scuola di Etruscologia (afferente al Centro Studi), un gruppo di studenti e laureati hanno potuto partecipare ad alcune campagne di scavo, susseguitesi per alcuni anni; nello scorso 2009 un ulteriore accordo fra Soprintendenza, Centro Studi e Università di Perugia ha portato alla realizzazione di indagini geofisiche i cui risultati saranno fra poco illustrati dal prof. Gualtieri.
Mi preme poi ricordare come dallo scorso anno è stata proposta alla Soprintendenza una collaborazione da parte di una società privata, l'Acquatecno di Roma, specializzata nella progettazione e costruzione di strutture portuali, che per celebrare i venti anni della sua attività ha finanziato una parte di interventi di scavo, tuttora in corso. Di questo non possiamo che essere lieti, sia per il finanziamento (oggi più che mai indispensabile per il proseguimento delle nostre attività), sia soprattutto per l'immagine che si è raggiunta in questi anni di lavori e di promozione. E come non ricordare a tale proposito l'azione continua e vivace dell'Azienda di Corbara e dei signori Patrizi, che come proprietari del terreno su cui sorge Pagliano, ne hanno con lungimiranza intravisto le potenzialità anche dal punto di vista dello sviluppo turistico.


Non voglio annoiare parlando dello scavo e ricordando le caratteristiche del sito: ne ho già parlato in varie occasioni, anche qui ad Orvieto; chi vuole potrà leggere quanto ho scritto negli atti di un recente convegno. Mi preme solo rammentare che la struttura si estende per oltre 8000 metri quadrati, è articolata su una serie di ambienti sia di carattere utilitario (magazzini, sale di smistamento, bacino di sosta) sia di carattere residenziale (vari ambienti pavimentati e di servizio), sia -forse - di carattere sacro: Mancini, che del sito aveva redatto una planimetria in scala 1:200 molto precisa e sufficientemente dettagliata, ricorda un santuario di Venere del quale non vi sono ancora che tracce molto limitate. Fra i materiali recuperati, abbastanza numerosi se si considera la condizione di conservazione del sito, sono da ricordare in particolare il gran numero di macine in pietra vulcanica; più che ad attività di molitura (le macine sembrano non usurate e quindi ancora nuove) si deve pensare all'immagazzinamento di tali strumenti prodotti nel territorio volsiniese, in attesa del trasporto ai mercati di vendita per mezzo della serie di chiatte che solcavano la corrente fluviale verso sud. La presenza di alcuni frammenti di ceramica sigillata con bolli riferibili alle officine di Zosimus, cui poco fa accennavo, rendono plausibile la presenza di magazzini e punti di smercio di tale fabbricante che attraverso il Tevere diffondeva a Roma e in tutto il bacino mediterraneo le sue produzioni. Non resta ovviamente traccia, ma era certamente ampio il mercato di legname, sia dall'Alfina, sia dall'Appennino, verso Roma: può essere significativo che tale materiale costituiva esso stesso il mezzo di trasporto preferito, una sorta di imbarcazioni "a perdere" su cui trovava posto anche tutto il materiale messo in commercio. Va d'altronde considerata la difficoltà di assicurare la navigabilità a imbarcazioni tradizionali, non tanto a favore di corrente, quanto nel ritorno.


Quello che ancora non è stato messo in luce - e ci auguriamo che qualche traccia emerga in seguito - è la fase repubblicana, o comunque preromana, del complesso. È innegabile che Orvieto avesse una struttura portuale anche in età romana (si ricordi quanto dicono le fonti sulle frumentationes verso Roma), ma se fosse qui o più prossima alla città purtroppo non è dato conoscere.
Mi sembra ora che si debba parlare delle prospettive future: previsione di ulteriori ricerche, per indicare in modo definitivo, o per lo meno il più realistico possibile, le caratteristiche del complesso archeologico; previsione di opere per la valorizzazione e la promozione di quello che si va delineando come uno dei caposaldi dell'archeologia orvietana; proposta di una funzione didattica sempre maggiore, vista nel più ampio contesto della storia della nostra città.


Dobbiamo ancora concludere l'intervento di scavo avviato grazie al finanziamento di Acquatecno; ci siamo concentrati sul settore orientale dell'area, che sembra poter dare risposte positive ad alcuni dei nostri interrogativi, se non altro perché in gran parte indenni dagli scavi Mancini, nonostante le manomissioni dovute ai frequenti eventi alluvionali: in ciò possiamo usufruire della collaborazione dell'Impresa Intrageo, che fornisce il supporto tecnico; con ogni probabilità entro l'inizio della prossima estate potremo chiarire alcuni dubbi. Altre indagini dovranno riguardare il rapporto fra il porto e i fiumi, cioè la presenza o meno di strutture per l'attracco, la rimessa, il deposito di materiali e via dicendo; le modalità di accesso all'area dell'impianto (quindi strade e collegamenti), e le forme di approvvigionamento idrico (si ricorda l'esistenza di una canalizzazione che scendeva dalle colline a nord); in questa prospettiva un valido contributo potrebbe venire dallo svolgimento di prospezioni geofisiche, preliminari ad ogni forma di intervento diretto sul terreno. Ci auguriamo che di pari passo possa procedere il restauro delle strutture, che in gran parte era stato reso possibile dai cospicui finanziamenti della Regione dell'Umbria all'Ente Parco Tevere, a ciò finalizzati; dopo la soppressione di tale Ente, è il Comune di Orvieto, che in accordo con la Soprintendenza ha inoltrato la domanda di contributo alla Regione: se, come si spera, la richiesta sarà accolta, continueremo in un'operazione che finora ha dato ottimi risultati, indispensabili soprattutto per la fruizione e la visibilità corretta del sito. A lato e a completamento di ciò dovrà proseguire - ci si augura - l'impegno della Comunità Montana che mai ha fatto mancare il suo appoggio - e qui mi preme ringraziare la professionalità e grande capacità del dott. Maurizio Conticelli, dal quale sono venute preziose indicazioni anche sotto il profilo dell'aspetto naturalistico del complesso. Abbiamo in corso anche altri contatti, soprattutto con imprese che operano nel campo della ricerca e nello studio delle malte nel restauro, dai quali potrebbero venire aiuti e collaborazione in questo che ritengo un settore fondamentale della nostra indagine: desidero infatti ricordare come sempre più sia inutile e dannoso continuare a scavare se poi non si possono garantire le condizioni per una corretta conservazione di quanto recuperato.


Fondamentale poi, ai fini della possibilità di valorizzazione del sito, è l'entrata a regime del Parco Archeologico Ambientale del territorio orvietano; già un primo grande intervento è stato fatto con la costruzione di una pista ciclabile, parte di quel percorso che da Ciconia dovrebbe raggiungere Pagliano; a tale proposito ritengo che, essendo questa località quasi all'ingresso del territorio verso sud-est, se ne potrebbe proporre la destinazione come di punto di partenza di un itinerario complesso, o, forse, soprattutto in considerazione della cronologia, punto di arrivo di una vicenda storica che giunge alla tarda antichità. Il grande lavoro che fin qui è stato portato avanti con il fondamentale impegno del Comune spero dia garanzie di fecondi risultati.
La promozione dell'importante area archeologica e il suo inserimento nel contesto storico-archeologico della città di Orvieto assume inoltre una rilevanza eccezionale se ne viene preso in adeguata considerazione il valore didattico - ringrazio per la collaborazione sotto questo punto di vista la Società Intrageo che già gestisce per conto della Soprintendenza la didattica nelle sedi orvietane dell'Istituto - ; non solo le scuole, ma anche le correnti di visitatori che affluiscono in città hanno sempre più la necessità di essere correttamente informate sulle situazioni che si accingono a visitare; nel caso specifico, l'originalità del sito, la sua peculiarità, lo stato di conservazione nel complesso accettabile, nonostante le gravissime manomissioni, consente osservazioni molto interessanti non solo sugli aspetti più strettamente archeologici, ma soprattutto sull'economia, la società, il tipo di movimenti di popolazioni e di merci, anche su particolari elementi della politica cittadina e più in generale dello stato romano; permette di dare indicazioni anche su aspetti di tipo naturalistico-ambientale, che specialmente nell'antichità venivano considerati di primaria importanza dato lo stretto rapporto che doveva esistere fra uomo e natura. Più nel dettaglio saranno possibili approfondimenti su caratteristiche di tipo tecnico e tecnologico (la vita quotidiana di un porto, gli ambienti e i locali utilitari e residenziali, le forme di carico e scarico, la presenza e l'uso di zattere o altri tipi di imbarcazioni, legate magari all'uso fluviale piuttosto che marittimo, l'uso del denaro per gli scambi e la tesaurizzazione, o le forme alternative di compravendita).

La presenza nelle immediate adiacenze dell'area archeologica del Centro Aziendale della Tenuta di Corbara, qualora se ne ravvisi la disponibilità da parte dei proprietari, potrebbe garantire il supporto logistico, magari, se possibile, con la presentazione di una documentazione di riferimento o di qualche oggetto significativo che sia riemerso dalle indagini: tutto ciò potrebbe essere propedeutico ad una visita consapevole e più approfondita del sito.Nel libro dei sogni - ma perché non tentare - potrebbe anche assumere rilevanza l'eventualità di un'area di sosta dell'Autostrada, che corre a cento metri dal porto: può essere questo una sorta di contrappasso agli scempi passati?; non vedrei male una situazione simile a quella di Fiano Romano, con la possibilità a chi transita di soffermarsi e avere la possibilità di visitare un ambiente particolare e suggestivo, in cui la natura e l'uomo - sia in positivo che in negativo - hanno convissuto per almeno due millenni.


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