cultura

Nel Giorno della Memoria

martedì 26 gennaio 2010
di Franca Fortunato

"LE KAPO' ci ordinarono di toglierci i vestiti e di buttarli sopra un immenso mucchio. Brutalmente, spogliavano le prigioniere che erano troppo deboli per capire o eseguire l'ordine. Le altre donne che stavano con me sembravano già morte. Con i capelli rasati, assomigliavano a nudi teschi con immensi occhi che fissavano indifferenti il vuoto. Eravamo in un locale grande e faceva caldo. Avevo patito il freddo per tanti mesi che riconoscevo a stento la sensazione di calore. Mi accorsi che proveniva da enormi forni posti in fondo alla stanza. Tra me e i forni c'era una folla apatica di condannate. Sarebbero state le mie ultime compagne sulla terra. Io ero finita, però. Ero completamente cosciente, anche se priva di idee. Vedevo i prigionieri in piedi davanti alle bocche dei forni che gettavano le Musulmane nel fuoco. Erano così prossime alla morte, che non avevano nemmeno la forza di ribellarsi. I nazisti non si preoccupavano nemmeno di mandarle nelle camere a gas prima di cremarle. Le gettavano nei forni vive. Nella stanza continuavano a entrare nuove vittime, che mi spingevano in avanti, verso i forni. L'unico modo per aggrapparmi alla vita era restare indietro, dimenandomi tra le nuove arrivate. Ma la gamba mi doleva troppo e la massa di corpi nudi e scheletrici continuava a spingermi in avanti. Adesso ero così vicina che vedevo le facce dei prigionieri polacchi mentre gettavano i corpi vivi nel fuoco. Afferravano le donne in qualche modo e le spingevano dentro con la testa in avanti. A volte, se una donna era troppo alta per entrare interamente nel forno, bruciavano prima il torso, poi le gambe e i piedi. Ci voleva un po' di tempo prima che un corpo si consumasse completamente. Ma tutte aspettavano senza gridare, senza dibattersi. Erano vittime indifferenti, ridotte alla totale apatia dalle malattie e dalla denutrizione, dal dolore e dallo sfinimento, ma io ero perfettamente cosciente, consapevole della mia nudità, consapevole del dolore alla gamba, consapevole del calore provocato dalle fiamme che ardevano davanti a me. Poi, quando vidi che stava per arrivare il mio turno, mi raggelai. Diventai di pietra, come le altre. Non avrei gridato, né mi sarei dibattuta quando quelle rozze mani mi avessero afferrata. Non avrei fatto nulla per ricordare a quei feroci criminali che ero un essere umano. Poi udì una voce. Stavo sognando? Proprio mentre mi trovavo davanti al forno, una porta si aprì in fondo alla stanza e sulla soglia si stagliò il comandante del campo. Sta lì rigido, con due barellieri alle spalle, e mi indicò. "Portate via quella ragazza", gridò".

E' questa la testimonianza di Trudi Birger, ebrea di Francoforte, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e strappata, miracolosamente, alla morte poco prima di essere spinta nel forno crematorio del campo di concentramento di Stutthof. Testimonianza unica, la sua, perché nessuno è tornato dai forni, nessuno ha potuto testimoniare, come lei, da protagonista, quelle scene da inferno dantesco, in cui c'è tutto l'orrore dell'Olocausto di cui si macchiò l'Europa intera. Ecco perché ho voluto, nel giorno della memoria, fare parlare questa donna, i cui ricordi li ha affidati al suo libro "Ho sognato la cioccolata per anni". Trudi aveva 16 anni quando venne deportata. Aveva conosciuto la persecuzione russa, lituana, la prigionia nel ghetto, dove suo padre venne ucciso dai nazisti per aver cercato di salvare dalla morte alcuni bambini. Nella sua vita si è salvata una dozzina di volte grazie alla sua voglia di vivere ma, soprattutto, al suo amore per la madre, Rosel Simon. Il grande amore tra madre e figlia, la devozione reciproca, è ciò che le ha tenute in vita e ha fatto di lei una testimone di quella immane tragedia, che rimase per sempre incisa sulla sua pelle. E' morta nel 2002 a Gerusalemme dove si era trasferita alla fine della guerra con la sua famiglia. Come l'amore della madre ha salvato lei dall'Olocausto, oggi, lo stesso amore può salvare Israele e il popolo palestinese. E' quanto una madre, Nurit Peled Elhanan, premio Sakharov per la pace, per amore dell'unica figlia morta per mano palestinese, da anni, va invocando: "Ascoltate le madri o tutto sarà morte".