cultura

Bergman - Antonioni: cinema della parola, cinema dello sguardo. Un pensiero per due grandi maestri

giovedì 2 agosto 2007
di Ambra Laurenzi
Adesso il cinema è più povero. A poche ore di distanza l’uno dall’altro ci hanno lasciato Ingmar Bergam e Michelangelo Antonioni. Uno strano destino ha unito nel momento dell’addio due tra i più grandi registi e intellettuali del novecento. Un libro del critico Pio Baldelli li aveva già unificati nel comune carattere ambiguo del loro lavoro (Il cinema dell’ambiguità Bergman-Antonioni, edizioni Samonà e Savelli, Roma 1970), ad identificare quei percorsi individuali che, per strade diverse, hanno condotto i due registi sul difficile tema dell’uomo nel suo contraddittorio rapporto con la realtà e la sua immagine, con la vita e i suoi misteri, con l’angoscia esistenziale legata al pensiero della morte. Lascio ad esperti critici cinematografici l’attenta e approfondita analisi di due così intense carriere, ma vorrei rendere un piccolo omaggio, da spettatrice, soffermandomi su due film che sono stati motivo di profonda riflessione, credo, per tutta la mia generazione, che negli anni sessanta e settanta seguiva ogni loro film. Ingmar Bergman Cinema della parola per eccellenza, “Scene da un matrimonio”, film che Bergman realizzò per la televisione e successivamente ridusse per il cinema, rappresenta una spietata radiografia del rapporto di coppia ma anche una acuta riflessione sull’egoismo e sull’incapacità di confrontarsi con l’altro. E’ costituito da un lungo e intenso dialogo tra i due protagonisti, Marianna e Johan, inizialmente presentati in un rassicurante quadro familiare e professionale dove tutto sembra scorrere felicemente. Lentamente cominciano ad insinuarsi piccole crepe e incomprensioni che rappresentano il preludio di una più grossa crisi che esploderà di lì a poco con la confessione del tradimento di Johan folgorando Marianna, totalmente impreparata all’evento. Dopo essersi separati e psicologicamente distrutti, a poco a poco riusciranno a ritrovare una diversa consapevolezza di sé e la possibilità di vivere in modo adulto la relazione tra di loro e con il mondo esterno, pur all’interno di tutte le contraddizioni e i compromessi inevitabili. Bergman ha quasi provato affezione per questi personaggi, tanto che in “Sarabanda”, il suo ultimo film, li metterà nuovamente e spietatamente a confronto trent’anni dopo, con una predilezione per il personaggio femminile che, come spesso accade nei suoi film, ha un ruolo drammaticamente più valido, portatore di solidarietà contrapposta all’egoismo. Michelangelo Antonioni Cinema di interrogativi dentro le ambiguità del reale, Blow-up, il film che Antonioni diresse nel 1966, non esaurisce ancora oggi, pur nella sua ormai datata ambientazione della Londra degli di anni’60, le possibili risposte sul rapporto tra il visibile ed il vero, tra realtà e apparenza. Il racconto si snoda seguendo Thomas, fotografo di moda, che costruisce il suo lavoro sull’apparenza, dove i set fotografici si creano e si distruggono, dove le relazioni, anche erotiche, sono mimate e vissute attraverso l’obiettivo, dove le persone sono agite più che pensate, dove i personaggi sembrano entrare in rapporto tra di loro attraverso la tecnologia. Ma sarà quando Thomas assisterà inconsapevole ad un omicidio che il massimo dell’oggettività (realtà della fotografia?) diventerà indecifrabile. Nell’ingrandimento del frammento di un fotogramma ciò che all’improvviso appare, in un’esasperata ricerca di visibilità, si annulla all’interno della grana fotografica e non può più essere percepito. Possiamo pensare che esista una rassicurante realtà assoluta? Adesso noi siamo più poveri. Antonioni e Bergam ci mancheranno, anche quando abbiamo provato disagio per l’assoluta crudezza psicologica dei loro linguaggi e inquietudine per le loro rigorose e silenziose inquadrature. In questa società in cui i valori riconosciuti sempre meno hanno a che fare con la qualità e lo stile, ci mancheranno i vecchi padri.