cultura

L'articolo di Alberto Satolli su Micropolis

lunedì 6 marzo 2006
di Alberto Satolli
Opera del duomo di Orvieto .2 Dodici Apostoli in cerca di casa In un precedente articolo che riguardava il Museo dell’Opera del duomo di Orvieto e la sua realizzazione scaglionata nel tempo (“Un catafalco per il museo”, Micropolis, dicembre 2005) affrontavo in particolare il problema teorico della musealizzazione di tutte le opere d’arte scampate allo smantellamento di fine Ottocento dell’apparato decorativo cinque-seicentesco all’interno del duomo. Nell’intervento sostenevo che la soluzione più corretta – nel rispetto della storia e della storia dell’arte proprio della funzione museale – sarebbe stata quella di riproporre un unico contesto espositivo per statue e pale d’altare, in uno spazio sufficientemente ampio come quello del piano superiore di Palazzo Soliano. Contestavo perciò il progetto del nuovo Museo basato sul criterio opposto di separare le statue dai quadri (quasi a voler annullare il messaggio storico-artistico che, insieme, rappresentarono e avrebbero ancora rappresentato) suscitando la reazione unanime dei consiglieri dell’Opera del duomo espressa in un comunicato, dal quale prendo spunto per continuare il discorso su quanto è avvenuto e quanto sta avvenendo. Riporto, subito, senza commento, la motivazione profonda addotta per liquidare l’indirizzo museografico e progettuale da me sostenuto: “…una soluzione espositiva insoddisfacente e forzata in considerazione della grande differenza dei due spazi architettonici: una Cattedrale da un lato, un Palazzo dall’altro [riguardo al quale] …non è inutile evidenziare l’assenza di colonne nel piano superiore…” come impedimento per collocare le statue… Vediamo invece quali sono i presupposti su cui si fonda il progetto ufficiale. Nel comunicato si scrive che “…la realizzazione della teca in legno che è stata realizzata precedentemente…compresa la progettazione ha avuto un costo complessivo di circa 360mila euro, da qui la decisione praticamente obbligata di conservarla”, si ammette, quindi, che la conservazione della “teca”, in ragione del suo costo da stand fieristico, è prioritaria rispetto alla conservazione museale ed ai criteri che dovrebbero guidarla. Si aggiunge poi che la scelta del progetto generale, compresa quella della delega per la progettazione della “teca” “… è stata condivisa dal Consiglio in carica” (evidentemente a posteriori) e si invoca come nume tutelare “…il professor Renato Bonelli riconosciuto unanimemente come il maggior conoscitore della Cattedrale orvietana”, senza precisare che gli interessi del professor Bonelli sono stati sempre limitati a “Il duomo di Orvieto e l’architettura italiana del Duecento-Trecento”, come fin dal titolo è ribadito nel suo libro dove non figura alcuno studio sugli interventi manieristi da lui ritenuti “…aggiunte arrecate all’interno” del duomo. Se poi si considera che per il professor Bonelli il “ripristino” ottocentesco “…rappresenta(va) uno dei più felici ‘restauri di liberazione ’ condotti finora” (in aperto contrasto con la maggioranza degli storici dell’architettura e dell’arte), non si può dire che aver chiamato lui soltanto con la “sua” commissione a progettare il nuovo Museo sia stata una trasparente operazione garantista, unanimemente condivisibile. Tant’è vero che il “progetto Bonelli” è stato poi concepito in modo da stravolgere la concezione unitaria dell’apparato cinque-seicentesco, non solo separando il grandi quadri dalla statue – gli uni al piano superiore (per il primato della Pittura?) e le altre a quello inferiore del Palazzo Soliano – ma anche rendendo impossibile la visione contemporanea sia dei primi, appesi intorno alla cosiddetta “teca”, che delle seconde, poste in un vano diviso da una sequenza di setti murari. Una grande creazione collettiva, insomma, è volutamente polverizzata in opere singole diversamente fruibili, scompaginando un testo figurativo omogeneo con la stessa insensibilità di un sedicente antiquario che strappa le incisioni dalla cinquecentine per venderle incorniciate ai clienti. A questo punto, ribadito il mio dissenso sul perverso progetto museale che si sta iniziando a realizzare, diventa urgente riprendere in considerazione la prima variante peggiorativa del progetto stesso e, precisamente, quella che prevede per gli Apostoli, in marmorea effigie, una stazione aggiuntiva nella chiesa di Sant’Agostino, come se il loro Calvario di extracomunitari non fosse già stato abbastanza tragico. Sfrattati dal duomo agli inizi del Novecento, gli Apostoli furono ricongiunti alle pale d’altare nel Museo Civico e dell’Opera del duomo allestito nel salone superiore del Palazzo Soliano finché, durante la Seconda Guerra Mondiale non furono, inaspettatamente, trasferite al piano terreno dello stesso Palazzo, dove rimasero pressoché invisibili per quarant’anni. Alla metà degli anni Ottanta si pensò di riportarli in duomo, ma il parere favorevole dei Comitati di Settore riuniti fu vanificato dall’opposizione del vescovo che addusse “…inderogabili esigenze liturgiche”. La Soprintendenza BAAAS dell’Umbria elaborò quindi, nel 1988, un progetto che permetteva “…di ricostruire idealmente la situazione del Duomo nell’epoca preesistente ai restauri ottocenteschi, collocando le statue ‘manieriste’ in rapporto visivo diretto con gli arredi, le opere e le suppellettili coeve in un ambiente di dimensione analoghe a quelle della navata” cioè nel salone superiore del Palazzo Soliano (e ciò sia ricordato anche a dimostrazione che l’indirizzo museografico da me caldeggiato, oggi come allora, non era né isolato né “utopistico” com’è stato arrogantemente definito nel comunicato dell’Opera del duomo). Per sostenere meglio gli Apostoli e la nuova struttura metallica furono anche consolidate le volte del Palazzo Soliano, mentre stranamente il progetto si arenava e intanto le statue, per lasciare il posto a quelle di Emilio Greco, furono trasportate nei sotterranei del duomo, dove ancora si trovano imballate. Si arriva così all’ultimo progetto che prevede il ritorno delle statue a pianterreno di Palazzo Soliano (previa estromissione del Museo Greco, tutt’altro che scontata, senza mettere in conto la perdita delle opere o chissà quali altre pesanti penali per il Comune), ma nel frattempo – ecco la geniale novità - si è deciso di mandare gli Apostoli al confino nella Chiesa di Sant’Agostino, restaurata da oltre dieci anni per nessuna e tutte le destinazioni: cartoni del Franceschini, costumi del Corteo Storico, abbuffate slow e, da ultimo, la (pseudo) mostra su Arnolfo di Cambio (con due sole statuette acefale attribuitegli) che ha fatto balenare l’idea di parcheggiarvi le statue. Dal mio punto di vista questo ulteriore allontanamento delle statue dalle pale d’altare non faceva altro che acuire gli aspetti negativi della loro separazione, tanto che fui indotto ad indicare provocatoriamente la più vicina chiesa di San Francesco in alternativa (ma poteva anche essere SS.Apostoli) senza pensare al duomo, perché condizionato mentalmente dal diniego del precedente vescovo. Poi, riflettendo sul fatto che, come mutano con i soprintendenti gli orientamenti di tipo museale, così possono cambiare con i vescovi le valutazioni di tipo liturgico, ho potuto appurare di persona che il nuovo vescovo non esclude la possibilità che le statue tornino al loro posto in duomo e che se gli fosse richiesto, per quanto di sua competenza, potrebbe dare il suo assenso. “Se sbalio mi corrigerete” , come diceva papa Wojtyla, ma d’altra parte mi riesce difficile immaginare un vescovo che caccia gli Apostoli dal Tempio lasciandoli mercificare da chi farebbe pagare un biglietto per vederli. Anche inquadrato nel problema più generale, il rientro delle statue in duomo – escluso che possano essere musealizzate insieme alle pale d’altare – sarebbe la soluzione più equilibrata, perché almeno il dialogo a distanza con i quadri esposti al museo sarebbe più comprensibile a tutti. Peraltro la scelta di collocare le statue in duomo ha già avuto in passato, come ha ancora oggi, sostenitori sia nel mondo della cultura sia nell’opinione pubblica informata e penso che, posta in alternativa a quella fantasiosa di esiliarle a Sant’Agostino, il numero di sostenitori non potrebbe che aumentare. Anche per me, che quando il progetto di un nuovo museo non era degenerato, consideravo il tardivo ritorno a casa degli Apostoli un’idea peregrina, appare oggi preferibile riconsegnare le statue al loro luogo di appartenenza piuttosto che relegarle in un luogo di estraniazione.

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