cultura

Da Melbourne i misteriosi segni dell'arte aborigena australiana

domenica 26 giugno 2005
di Laura Ricci

Lo Studio L’ArteMIA di Melbourne, diretto da Tom Healy, ha portato a Orvieto per alcuni giorni - da giovedì 16 a martedì 21 giugno a Sugana Bottega di Pittura - un'eccezionale e singolare esposizione dell'arte pittorica degli Aborigeni; un’arte che emersa dal Deserto Occidentale australiano solo negli ultimi trenta anni, si è inserita con valore e originalità nel panorama figurativo internazionale.
La mostra è aperta, a Sugana in Via Adolfo Cozza 1, dalle 10 alle 14 e dalle 17 alle 21. L'ingresso è libero.

Filo conduttore della mostra è la capacità di questi artisti australiani di interpretare con espressioni luminose e moderne un’arte che è legata indissolubilmente a sacralità, riti e tradizioni culturali. Un’arte fatta di impronte, segni e tracce, che vogliono essere un’ “impressione” delle entità esistenti in natura. Entità che gli aborigeni ritengono create dagli avi durante i viaggi sacri ai tempi del “sognando”. La natura, soggetto unico di quest’arte, è quindi allo stesso tempo materializzazione dell’onnipresente e voce delle norme culturali dettate dagli avi.
Per i popoli aborigeni la terra parla, racconta, detta; e l’arte ad essa ispirata è un mezzo per affermare la propria identità, tanto che esiste anche una differenza sociale nella possibilità di “fare arte”. Alcune immagini possono essere rappresentate solo da donne, altre solo da uomini, altre ancora solo da alcuni gruppi sociali e non da altri. Questa è anche la ragione per cui l’arte aborigena è sempre stata protetta come un segreto e prodotta in forme non trasportabili.

È solo nel 1971 che un giovane insegnante, Geoffry Bardon, affascinato dai disegni dei bambini, incoraggia i membri della comunità Utopia a dipingere sui muri le loro storie, fino ad allora scritte solo sul corpo, sulla sabbia e su qualche corteccia di albero: questo il punto di partenza per la manifestazione all'esterno di questa nuova espressione d’arte. E se alcune comunità aborigene hanno opposto resistenza alla commercializzazione, altre hanno ritenuto invece che potesse mantenere viva la loro stessa cultura, dando così al mondo la possibilità di fruire di queste opere uniche.
Nelson Tjakamara, per l'inaugurazione del murale all'Opera House di Sidney nel 1988, tenne questo discorso: ora vogliamo mostrare i nostri dipinti al mondo, vogliamo raccontare alla gente che questo è il posto più importante per noi, che è la nostra terra. Ce l'hanno portata via senza riflettere su quello che stavano facendo, come non fossimo nulla. Questa è la ragione per cui ora vogliamo mostrare al mondo la nostra cultura del Dreaming, in modo che possano comprendere il nostro modo di vivere.
Sono artisti emergenti, anzi artiste, perché sono soprattutto le donne, fulcro della tribù, a cimentarsi; alcune quotate, fiorite ed esplose in un'orgia di segni e di colori - quelle che non hanno opposto resistenza - con la scoperta della tela e dell'acrilico, che sono andati a sostituire la pelle del corpo e i colori estratti dalla natura. I segni più antichi e ingenui, non contaminati come altri dalla scoperta del batik indonesiano, sono i puntini, disposti in colorate e simboliche topografie.

Proveniente da Roma e Perugia, per troppo pochi giorni e quasi casualmente a Orvieto, dove ha riscosso un'accoglienza entusiasta, la mostra proseguirà verso Napoli e Bologna.
"Questa non è un'arte da museo - ci dice Tom Healy, il curatore - piuttosto da salotto, ma vogliamo diffonderla, per così dire, "in Piazza", vogliamo renderla fruibile e abbordabile per tutti. Non in senso commerciale, intorno a quest'arte si muovono ormai 86 milioni di euro di affari nel mondo, ma nel senso della comprensione e del godimento".