cultura

Intervista ad Uta Lemper

lunedĂŹ 24 febbraio 2003
Ho saputo per caso che doveva tenere un recital al Politeama di Terni. Conoscevo le sue canzoni, sapevo della sua capacitŕ di tenere la scena e di farsi tenere da essa: e mi incuriosiva quel suo essere tedesca e pacifista, tedesca e calda; e confesso che non poco mi intrigava il fatto che la chiamano la” nuova Marlene Dietrich”.

Sul palcoscenico del Politeama, in un accorto e raffinato giochi di luci ( non mi ero reso mai conto di come sia importante in un recital la luce artificiale, che accarezza e schiaffeggia, che nasconde Sapientemente e mette in risalto: che fa quasi da guida luminosa al canto e alle parole) Ute si é presentata con un lungo cappotto nero sotto gli spacchi del quale spuntava un abito lungo rosso scarlatto : e giŕ pensavo che in quel gioco di rosso e di nero c’era intesa e sottintesa tanta parte della nostra cultura europea. Il suo repertorio fa parte ormai della leggenda della musica di oggi.

Dai cantautori di lingua francese a Kurt Weill, dalle canzoni che lei compone e che poi canta come le avessimo scritte tutti insieme, alle reminiscenze di Marléne Dietrich, guardata con la soggezione e l’ironia di una tedesca quarantenne che guarda un mito e sa scherzarci sopra.

L’effetto delle luci la faceva sembrare altissima e magra, bionda e violenta come una bellezza svedese, misurata e sbracata a seconda dei ruoli, appesa alle sue mani lunghissime. Ha avuto l’accortezza di evitare quello che in genere fa la gente di spettacolo in giro per l’italia: non ci ha fatto sentire la sua versione di ‘o sole mio, e non ha neppure intonato, per amor di ciampi, fratelli d’italia.

Alla fine dello spettacolo le ho chiesto se poteva rilasciarmi qualche dichiarazione: avevo paura che con precisione teutonica mi chiedesse per quale giornale scrivevo, quale fosse la tiratura, quanto ero disposto a pagare. Nulla di tutto questo: in quel suo francese comprensibile di chi parla francese senza essere francese, ha accettato di venire con me al bar del teatro; ha preso un tč alla menta, mi ha fatto capire con garbo che non aveva troppo tempo; mi sono accorto in quel momento che era una donna minuta, dal corpo esatto, dalla voce tranquilla.

Solo gli occhi ricordavano la fatale Marléne. Le ho chiesto cosa pensasse della guerra che si deve fare, e che giŕ si fa e che nessuno la vuole ma nessuno la svuole. Si aspettava la domanda: “ noi tedeschi abbiamo fatto troppe guerre, le abbiamo perse tutte, per fortuna nostra e del mondo, questa volta non c’č un solo tedesco che appoggi gli americani”.

Nulla di politicamente corretto, nella sua voce: parlava da tedesca d’europa e del mondo, cosě come nelle sue canzoni passava da Bukowskj a Prévért, da Kosma a Weil- Brecht. Non si atteggiava a opinion maker, non parlava da intellettuale in cattedra: ma il suo repertorio, a tacer d’altro, parlava per lei; cosě come parlava quella sua aria di quarantenne matura ma joanbaeziana: non era stata, per motivi anagrafici, una sessantottina; ma ne esprimeva la parte migliore.

Le ho chiesto se l’avventura italiana le fosse di gradimento: ha ricordato le sue serate al Piccolo di Milano, con un pubblico abituato a Brecht- Weil. Ma anche Bologna le aveva riservato un’accoglienza calda, diversa dall’attenzione critica del pubblico francese, da quella cronometrica del pubblico tedesco. Era contenta di aver coinvolto il pubblico del Politeama, anche se il primo approccio era stato difficile e sospettoso: ma le piaceva, mi ha detto, questa battaglia con il pubblico, questo doverlo conquistare sera per sera, canzone per canzone, gesto per gesto.

Pensavo a Marlčne, mentre parlavo con Ute: e capivo che i miti, per fortuna, sono finiti, e che Ute, quella sera, mi aveva insegnato che si puň essere un antimito senza essere un terraterra. Mi ha chiesto se volevo un suo CD, con dedica; quando le ho risposto che non c’era bisogno ha pensato che non fossi un suo fan: e magari mi avrebbe parlato di faccende di casa, di figli, o del manifesto che era venuto male, con quel ginocchio nudo e appuntito.

Sono arrivati i quattro del complesso: me li ha presentati uno per uno, ha accarezzato allegra la testa del contrabbassista di colore, minuto come lei e come lei spaesato per troppo conoscere paesi. Mi ha salutato con un arrivederci pronunciato in perfetto italiano.

Un’altra, per stare alla moda, mi avrebbe detto “ciao, ciao”. Una bella serata di grande musica e piccola conversazione